ateatro
n. 19 - 15 settembre
2001
a cura di Oliviero
Ponte di Pino
Questo è un punto di vista piccolo piccolo rispetto all'iniezione di odio che il mondo intero ha subito in questi giorni e alle sue ricadute. Di fronte a un orrore e a un assurdo di queste dimensioni, ogni commento e riflessione rischia di apparire inutile e presuntuoso. Allora, anche per placare l'angoscia, proviamo a mettere in fila alcuni fatti, forse marginali, per cominciare questo numero di "ateatro".
A New
York, dopo l'attentato alle Twin Towers, su indicazione del sindaco e delle
altre autorità, il mondo della cultura e dello spettacolo ha deciso
di riprendere l'attività appena possibile. I problemi ovviamente
sono numerosi: l'allerta per possibili nuovi attentati (in particolare
nella zona di Times Square) con tutti i rischi per la sicurezza in luoghi
affollati come teatri, cinema e musei; il lutto di molti artisti che hanno
perso parenti e amici (un interprete di Contact, uno degli spettacoli
di maggior successo di questi anni, ha perso due familiari); le difficoltà
di raggiungere Manhattan (anche perché molti spettatori sono turisti
in visita in città); e infine le possibili reazioni del pubblico
in sala. Inoltre, molti dei vigili del fuoco coinvolti nel crollo delle
Twin Towers prestavano servizio nella zona di Broadway e dunque nei teatri.
Le prime
di alcuni film e spettacoli sono in ogni caso state rinviate: tra i film,
Collateral Damage (in una scena c'è un attacco a un grattacielo)
e Big Trouble (che ruota intorno a materiale radioattivo che viene
introdotto clandestinamente in un aeroporto); in teatro, Assassins
di Stephen Sondheim, dove si parla di attentati alla Casa Bianca
e al Presidente (il musical aveva debuttato ai tempi della Guerra del Golfo,
sconcertando parte del pubblico). Rinviato fino a tempo indeterminato anche
Tick, Tick… Boom, il musical di Jonathan Larson, autore del fortunato
Rent: i produttori stanno cercando un titolo meno inquietante.
I teatri
hanno riaperto giovedì sera, 48 ore dopo il disastro. Il 60-70%
degli spettatori che avevano acquistato il biglietto si sono presentati
in sala. Molti artisti si erano posti il problema delle reazioni del pubblico:
è legittimo ridere e divertirsi in una situazione luttuosa come
questa? L'indicazione era di tenere le mezze luci in sala e nei foyer prima
dell'inizio degli spettacoli e negli intervalli, e di aprire lo spettacolo
con un minuto di silenzio. Per superare il disagio della platea, dei tecnici
e degli interpreti, in diversi teatri la serata è iniziata con un
canto, prima che si alzasse il sipario («God Bless America»
oppure «My Country 'Tis of Thee»).
Ma c'è
stato anche chi ha distribuito una gigantesca torta, preparata per il party
della prima ufficiale (che era peraltro stata rinviata).
Diversi
teatri e compagnie hanno pensato di regalare biglietti omaggio a pompieri,
poliziotti e personale delle ambulanze. La New York City Orchestra, la
Metropolitan Opera (che in poche ore aveva già raccolto donazioni
per 1 milione di dollari a favore delle vittime), la New York Philarmonic
Orchestra (tra gli altri) daranno spettacoli e concerti speciali e devolveranno
i ricavi alle vittime dell'attentato.
In molte
sale si è deciso di lasciare al centro della scena una luce sempre
accesa, giorno e notte.
Il «New
York Times» (da cui sono state ricavate molte di queste info) ha
anche pubblicato un articolo di Sarah Boxer sul rapporto
tra arte e dolore, che inizia con una citazione dal saggio di Elaine
Scarry The Body in Pain: The Making and Unmaking of the World: «Provare
dolore significa avere una certezza, sentire parlare del dolore significa
dubitare». Tra le altre opere citate,
Enduring Creation: Art, Pain and Fortitude di Nigel Spivey (University
of California, 2001) e Eyewitnessing: The Uses of Images as Historical
Evidence di Peter Burke (Cornell University Press, 2001). Conclude
Sarah Boxer: «L'idea di un oggetto inanimato
che prova dolore diventa forse più sensata per chi ha visto e rivisto
le immagini televisive dei due aerei che colpiscono le torri del World
Trade Centre e penetrano al loro interno. Dopo aver visto quegli
aerei ferire gli edifici, facendoli diventare prima rossi e poi neri, fino
al crollo, l'idea che possano aver provato dolore sembra meno bizarra.
Per chi ha indagato i diversi modi in cui il dolore è stato raffigurato
e descritto nel passato, questo film ripetitivo può diventare la
formula con cui la nostra epoca esprime il suo pathos, un modello destinato
a essere immaginato e ri-immaginato, il nuovo Laocoonte».
INDICE
La
musica delle parole
un'intervista
a Luigi Ceccarelli
I
Testori di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi
di
Oliviero Ponte di Pino
Comunicazioni di servizio
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Venerdì 28 settembre 2001 si svolgerà a Bologna il seminario conclusivo del progetto NOFRET. L'incontro è rivolto a tutti gli operatori coinvolti nella produzione di spettacolo dal vivo, per confrontare idee ed esperienze e cercare di capire, con l'intervento di ricercatori ed esperti, come impostare e svolgere al meglio l'attività di fund raising per la propria organizzazione. Vi comunicheremo al più presto luogo esatto, orari e programma della giornata. Per ulteriori info sull'iniziativa, cfr. "ateatro 18".
I
finalisti del 46° Premio
Riccione per il teatro. Sabato 29 settembre 2001, alle ore
21.30, al Teatro del Mare di Riccione (ingresso libero), si svolgerà
la cerimonia di premiazione del 46° Premio Riccione per il Teatro,
assegnato ogni due anni ad un opera originale di
autore italiano,
mai rappresentata, come contributo alla sviluppo della drammaturgia contemporanea.
Oltre al Premio Riccione
di L. 15.000.000, verranno assegnati il Premio speciale della Giuria intitolato
a Paolo Bignami e a Gianni Quondamatteo, il Premio Pier Vittorio Tondelli,
di L. 5.000.000, al testo di un giovane autore che non abbia compiuto trent'anni
entro il 31 dicembre 2000 e, fuori concorso, il Premio Speciale Aldo Trionfo
a quei teatranti - artisti della scena o della pagina, singoli o gruppi,
studiosi o tecnici - che si siano distinti nel conciliare gli opposti,
coniugando la tradizione con la ricerca, assegnato dalla Giuria, integrata
per l'occasione da Fabio Bruschi, Direttore artistico di Riccione Teatro
e da Tonino Conte, Emanuele Luzzati e Giorgio Panni del Teatro della Tosse
di Genova.
La giuria del Premio
Riccione per il Teatro, composta da Franco Quadri (presidente), Vincenzo
Consolo, Elena De Angeli, Luca Doninelli, Marisa Fabbri, Mario Fortunato,
Maria Grazia Gregori, Massimo Marino, Enzo Moscato, Luca Ronconi e Renzo
Tian, (Segretaria Francesca Airaudo), riunitasi a Riccione nei giorni scorsi,
ha scelto la rosa dei finalisti, tra cui assegnare i premi previsti dal
regolamento del Premio.
I finalisti del 46°
Premio Riccione per il Teatro sono Antonio Moresco
("Merda e luce"), Francesco Silvestri ("Piume"), Silvia Calamai ("Trincea
di signore, cronache da un assedio"), Paolo Puppa ("Ponte all'Angelo"),
Linda Brunetta Caprini ("Una vacanza indimenticabile"), Paolo Mazzarelli
("Hansel e Gretel - in fondo alla notte, il mattino), Luciano Colavero
("Una colomba"), Alberto Bassetti ("Entrate"), Letizia Russo ("Tomba di
cani"), Massimo Sgorbani ("Angelo della gravità"), Giorgio Pressburger
("Il rabbino di Venezia"), Roberto Cavosi ("Bellissima Maria"), Tristano
Cassandra ("La leggenda del cavaliere oscuro"), Giampaolo Spinato ("B"),
Ascanio Celestini ("Alle porte della città - le nozze di Antigone"),
Edoardo Erba ("Senza Hitler").
Il Premio Riccione
per il Teatro presenterà inoltre due iniziative collaterali.
Giovedì 27
settembre 2001 alle ore 21,30 il Teatro del Mare di Riccione (ingresso
libero, prenotazione obbligatoria) ospita la serata Bergonzonica,
la vocazione e le invenzioni teatrali di Alessandro Bergonzoni, attore
e attore. Una visita guidata alle sue zone erogenee mentali a cura di Oliviero
Ponte di Pino. Gran Maestro di cerimonie e interfaccia con il pubblico,
Massimo Masini
Al Teatro del Mare
si svolgerà inoltre L'esperienza del testo,
laboratorio di drammaturgia condotto da Renata Molinari con
allievi-attori de Scuola di Teatro del "Piccolo" di Milano, Scuola di Recitazione
del Teatro Stabile di Genova, Scuola di Teatro di Bologna e un osservatorio
di giovani drammaturghi della Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi di
Milano. Una settimana di lavoro su testi finalisti
della 46^ edizione del Premio Riccione per il Teatro alla ricerca
di strutture, situazioni, temi, lingue e linguaggi della nostra drammaturgia
contemporanea, indagata alla luce del lavoro scenico. Il laboratorio si
concluderà con una sessione di lavoro
aperto al Teatro
del Mare di Riccione, sabato 29 settembre 2001 ore 15 (ingresso libero).
Ha esordito a Benevento
- Città Spettacolo, sabato 8 settembre 2001 (Teatro Comunale) Opera
Buffa! di Michele Celeste (vincitore della 45° edizione del Premio
Riccione) con Piera degli Esposti, per la regia di Cherif.
Per informazioni:
Premio Riccione per il Teatro, tel. 0541/692127.
E' in libreria l'autobiografia
di Peter Brook, I fili del tempo.
Memorie di una vita, Feltrinelli, Milano, 228 pagine, 45.000 lire.Se
vi interessa saperne di più sul libro, provate su Internetbookshop.
Imperdibile: Chi non legge questo libro è un . I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999. |
La
musica delle parole
un'intervista
a Luigi Ceccarelli
Con questa intervista
a Luigi Ceccarelli, il musicista che ha collaborato con Marco Martinelli
e Ermanna Montanari per L'isola di Alcina e di recente con Fanny
& Alexander per Requiem, prosegue la riflessione sul rapporto
tra teatro e musica iniziata con l'intervista a Filippo Del Corno in "ateatro
14".
Per ulteriori info
sulla carriera e sulla musica di Luigi Ceccarelli, edisonstudio.
Perché ti sei avvicinato al teatro? Il teatro musicale era già un filone di lavoro che perseguivi nell'ambito della tua ricerca musicale?
In realtà sono sempre stato
un musicista molto vicino al teatro e alle arti visive. E non solo perché
ho collaborato con artisti delle più varie discipline, ma soprattutto
perché, al di là della conoscenza di una tecnica specifica,
credo che l'operato di ogni artista sia in rapporto con tutta la cultura
e non soltanto con il proprio linguaggio. Quando penso alle opere che più
hanno influenzato il mio lavoro mi vengono in mente, oltre che musicisti,
nomi di pittori, registi, architetti o scrittori.
Fin dall'inizio della mia formazione
musicale, quando ero ancora uno studente al Conservatorio di Pesaro, il
mio interesse per le arti visive è stato molto forte. Verso la metà
degli anni Settanta ho lavorato insieme a un gruppo di studenti dell'Accademia
di Belle Arti di Urbino per la progettazione di un'installazione che coinvolgesse
l'intero palazzo del Conservatorio. Si trattava di un percorso sonoro e
visivo che trasformava quell'austero ambiente accademico in un luogo di
incontri stravaganti: rumori concreti di ambienti, rumori di oggetti e
frammenti di varie conversazioni erano liberamente associati a oggetti
e ambienti dell'arte povera.
Pochi anni dopo, il mio professore
di Musica Elettronica, Walter Branchi, mi fece conoscere il pittore Achille
Perilli e gli artisti che lavoravano con lui in "ALTRO, gruppo di lavoro
intercodice". Si trattava di un gruppo formato da artisti provenienti da
varie discipline (pittori, fotografi, grafici, architetti, danzatori) che
realizzava spettacoli partendo dall'idea di una relazione paritaria tra
tutti i linguaggi artistici. Con loro ho lavorato dal '77 all' '80 nella
creazione di Abominable A, una performance teatrale nella quale
tutta la parte sonora, da me realizzata, era costituita unicamente da parole
che iniziavano per "A", lette in sequenza da vocabolari di varie lingue
e modificate elettronicamente.
In seguito il gruppo si è
trasformato in "ALTRO teatro", la compagnia di danza diretta da Lucia Latour
e con Lucia abbiamo continuato a realizzare spettacoli di danza e musica
fino alla metà degli anni Novanta. Il nostro metodo di lavoro era
molto influenzato dal lavoro intercodice, e anche in questo caso la progettazione
degli spettacoli era fatta con criteri di lavoro di equipe. Oltre alla
musica ho realizzato al computer complesse multivisioni che servivano da
scenografia. Tra tutti vorrei ricordare Anihccam spettacolo ispirato
a Fortunato Depero, che all'inizio degli anni Novanta ha avuto grande successo
in Italia e in Europa.
Il mio avvicinamento al teatro
di parola, invece, è iniziato di recente ed è stato un percorso
a tappe, nato in modo per me del tutto imprevedibile partendo dalla radio.
Nel 1994 Radio Tre aveva commissionato
a venti musicisti italiani altrettanti "Radiofilm". Con questo termine,
inventato da Luca Francesconi, si proponeva ai compositori di realizzare
un'opera musicale partendo da una storia e utilizzando il linguaggio del
cinema e le tecnologie elettroniche ad esso connesse, ma, ovviamente, in
assenza di immagine. Due erano le novità rilevanti rispetto al tipo
di commissione che viene di solito fatta ad un musicista: l'obbligo di
utilizzare le tecniche digitali nella composizione non solo come ausilio
tecnico ma come elemento creativo, e la richiesta che il testo e la trama
del racconto risultassero assolutamente comprensibili, a differenza di
quel che avviene di solito nella musica di ricerca. Per quell'occasione
ho realizzato La guerra dei dischi su testo di Stefano Benni tratto
dal romanzo Terra!
A differenza della maggior parte
degli altri musicisti, che non si sono discostati molto da un'opera musicale
piuttosto tradizionale con l'aggiunta di un testo recitato, lavorando alla
Guerra dei dischi ho scoperto un linguaggio nuovo che mi è
molto congeniale e che usa le tecniche digitali per combinare insieme suoni
concreti, suoni astratti e testi, considerandoli elementi di uno stesso
linguaggio nel quale i suoni delle parole e i rumori di ambiente sono elementi
musicali a pieno titolo, e gli elementi musicali, a loro volta, diventano
estensioni della fonetica. In seguito ho composto altri lavori che impiegano
questa stessa impostazione, per alcuni dei quali ho realizzato anche la
parte visiva. In particolare per RadioTre ho realizzato una serie di piccoli
pezzi di cinque minuti con testo di Valerio Magrelli dal titolo I viaggi
in tasca. Poi La commedia della vanità di Elias Canetti
con la regia radiofonica di Giorgio Pressburger. Questo lavoro, oltre ad
essere trasmesso dalla radio è stato rappresentato in forma scenica
qualche anno fa al Mittelfest. Le azioni degli attori si svolgevano dal
vivo, mentre il sonoro, comprese le voci, erano quelli realizzati da me
in studio.
Nel caso sia dell'Alcina sia del Requiem, mi sembra di capire che tu abbia lavorato molto sul testo e sulla sua tessitura verbale, per dar loro una sostrato, una materialità sonora. Che obiettivi di sei posto? E come hai lavorato? Hai chiesto di modificare il testo in base alle tue esigenze?
Il mio lavoro sul testo e sulla
tessitura verbale è complementare a quello dello scrittore e del
regista; è un lavoro che considera la dimensione sonora del teatro
nella sua globalità e parte dal significato del testo per arrivare
al suono: il suono della voce, i suoni che delimitano lo spazio della voce,
i suoni ambientali e la loro interazione con la voce.
A differenza di come un musicista
lavora in teatro o nel cinema, il mio modo di fare musica in rapporto a
un testo non consiste semplicemente nel sovrapporgli un commento o "creare
un sottofondo", ma nell'organizzare un universo sonoro che si integri con
l'azione e con l'immagine e che venga a far parte della struttura narrativa
ed emozionale così intimamente da essere inscindibile dal resto.
Insomma il mio è un contributo alla creazione di un 'opera unitaria
dove ogni elemento sonoro e visivo risponda al medesimo ritmo.
Quando inizio a lavorare per un
nuovo spettacolo teatrale per prima cosa studio il testo e cerco di pensarlo
in relazione alle voci degli attori. Utilizzando la tecnologia digitale,
ci sono molte cose che un musicista può fare per migliorare la recitazione
e l'espressività della parola nel contesto generale. Per esempio
rendere percepibile tramite l'amplificazione tutti quei particolari fonetici
che normalmente si perdono, perché troppo deboli rispetto al suono
di fondo. (Questa può sembrare una tecnica molto banale anche perché
ormai tutti in teatro la adoperano, ma in genere la si usa in modo talmente
rozzo che di solito peggiora, invece di migliorare, la qualità della
voce.) L'amplificazione dei suoni e soprattutto della voce richiede una
grande conoscenza tecnica, ma sopratutto va considerata come un fatto creativo.
Io considero l'amplificazione come un microscopio acustico che, al pari
di un microscopio visivo, rende percepibile un microcosmo sonoro altrimenti
inimmaginabile. Con il tempo ho imparato che l'espressività della
voce, la sua capacità di comunicare i significati più profondi,
viene data in gran parte da quei suoni accessori e apparentemente involontari
che sono sempre presenti quando si parla ma che non consideriamo significanti
come per esempio le incertezze di pronuncia, i respiri, gli schiocchi della
lingua, i rumori della saliva. Qualche anno fa quando provavo a ripulire
le voci da questi disturbi mi accorgevo che la voce perdeva tutta la sua
capacità emotiva. Oggi di solito tendo a esaltare i rumori, a volte
anche eliminando completamente i suoni vocalici, quelli che normalmente
sono i più importanti nel canto.
Anche se il risultato delle voci
da me trattate può sembrare molto naturale, in realtà per
ottenerlo è necessario a volte un trattamento molto forte: l'elaborazione
timbrica della voce, che si ottiene analizzando ogni componente armonica
del suono fin nei suoi minimi dettagli per poi operare elaborazioni selettive.
Se agli inizi dell'era della musica elettronica, negli anni Cinquanta,
gli strumenti elettronici erano piuttosto grossolani e i suoni che si ottenevano
avevano un sapore inconfondibilmente "elettrico", oggi siamo arrivati a
un grado di flessibilità delle macchine sufficiente per avere elaborazioni
molto sofisticate e simili per qualità ai suoni naturali.
Con il trattamento della voce è
possibile anche rendere più intelligibile il testo Quando un attore
si rende conto che per farsi capire non ha più bisogno continuamente
di parlare forte, e che ogni suo minimo sospiro può essere ascoltato,
incomincia a usare tante sfumature che normalmente sarebbero impercettibili.
Ermanna Montanari per esempio, l'interprete dell'Alcina ha imparato
a usare questa tecnica in modo veramente mirabile.
Il mio metodo di lavoro con i suoni
strumentali è del tutto simile a quello con le voci e questo mi
permette di avere una perfetta interazione tra suoni e voci. Nel caso degli
strumenti tradizionali poi, e soprattutto degli strumenti a fiato, il rapporto
tra strumento ed esecutore è molto vicino a quello dell'attore con
la propria voce, non essendo questi strumenti altro che una estensione
della cavità orale di chi li suona. Con il cornista Michele Fait,
con il quale ho realizzato i suoni dell'Alcina, e con il trombonista
Renzo Brocculi per il Requiem, abbiamo lavorato a lungo sul respiro
e sull'emissione dei suoni accessori, quelli che non possono essere scritti
in una partitura, e per questo abbiamo studiato particolari tipi di ripresa
microfonica. Abbiamo anche sperimentato varie modifiche agli strumenti
stessi (trombone e corno), per ottenere particolari sonorità.
La convenzione che distingue i
suoni cosidetti "musicali" dai rumori non esiste più. Allora perché
non considerare musica anche le voci e i suoni ambientali? Con le nuove
tecnologie ci si rende conto che tutti i suoni, siano essi prodotti da
strumenti musicali, voci o dall'ambiente, possono servire alla creazione
artistica.
Naturalmente un musicista in teatro
non lavora da solo e questo comporta necessariamente una grande sintonia
con tutti gli altri autori dello spettacolo, regista e attori innanzitutto,
ma per me è sempre molto importante anche la relazione con la scenografia
ed il disegno luci. Credo molto nel lavoro collettivo e sono convinto che
la buona riuscita di un'opera dipenda dal grado di collaborazione che si
raggiunge all'interno della compagnia.
Nel caso particolare dell'Isola
di Alcina c'è voluto molto coraggio da parte di Marco Martinelli
ed Ermanna Montanari ad accettare la mia interferenza in un tipo di lavoro,
quello del Teatro delle Albe, così tecnicamente diverso dal mio,
ma tra noi si è stabilita subito una sintonia creativa perfetta.
Nel Requiem ho avuto l'opportunità di ampliare ancora di
più il mio rapporto tra musica e teatro. Fanny & Alexander ha
utilizzato da sempre le tecnologie digitali e unendo le nostre competenze
abbiamo realizzato uno spettacolo molto complesso.
Tu lavori molto con l'elettronica. Che rapporto si crea sulla scena con le voci "live" degli attori? Per esempio, che rapporto si crea tra i tempi "fissi" delle basi e quelli più flessibili degli attori e del pubblico? Come gestisci il rapporto tra questi due "ritmi"?
Nella realizzazione di uno spettacolo
teatrale una parte sempre più importante è riservata al rapporto
uomo/macchina. Partendo dai primi decenni del secolo scorso, attraverso
le avanguardie artistiche come il futurismo, il costruttivismo e l'espressionismo
del Bauhaus, il teatro è divenuto una macchina dinamica nella quale
scenografia e luce hanno sviluppato una grande duttilità assumendo
la stessa importanza del testo e della recitazione.
In questa ottica l'impiego della
tecnologia elettronica è un ulteriore passo nell'invenzione scenica
che ci da la possibilità di manipolare immagini, movimenti e suoni
considerandoli come elementi di un'unica partitura.
Credo che il maggior vantaggio
portato dalle macchine digitali in tutte le attività umane, e quindi
anche nel teatro e nella musica, sia la loro programmabilità. Intendo
con questo la possibilità di fissare molto esattamente nel tempo
gli eventi e di ripetere le sequenze programmate ogni volta che lo si desidera,
apportando le eventuali modifiche senza dover ripetere tutta la sequenza
ogni volta da capo.
Teoricamente questo metodo di lavoro
è molto simile a quello che si usa già da tempo nel cinema.
Di fatto in teatro prima dell'impiego dei computer tutto questo era quasi
impossibile. E poi in teatro c'è un elemento che rende tutto molto
più affascinante:l'interazione dal vivo, in tempo reale, tra l'uomo
e la macchina. Oggi la tecnologia ci mette a disposizione macchine che
non sono più rigidamente legate a tempi predeterminati e quindi
possiamo far interagire in vario modo sequenze digitali e attori dal vivo.
Fare interagire sequenze prefissate
con le azioni teatrali dal vivo è stato sempre molto stimolante
per me dal punto di vista creativo. In ogni spettacolo si presentano ogni
volta problemi di interazione tra il tempo di recitazione degli attori
(o anche di uno strumentista che suona) e le sequenze predeterminate di
suoni, di luci, di movimenti scenici. La ricerca delle risoluzioni più
adeguate mi ha portato spesso a trovare nuove idee drammaturgicamente determinanti.
Nel caso dell'Alcina per
esempio le aperture e le chiusure dei microfoni degli attori e i cambiamenti
di riverberazione della voce sono programmate nel tempo. Così durante
lo spettacolo non è necessario eseguire operazioni meccaniche e
ci si può concentrare esclusivamente sulle variabili più
delicate dello spettacolo, come il rapporto di intelligibilità tra
suono e voce. Anche il movimento del suono nello spazio è completamente
automatizzato: ci sono fino a ventiquattro suoni contemporanei che vengono
spostati nello spazio seguendo ognuno il proprio percorso. Nel Requiem
viene utilizzato un sistema molto più complesso costituito da
tre computer sincronizzati tra loro: uno di questi gestisce tutti i suoni
preorganizzati su 24 piste, un altro gestisce nel tempo l'elaborazione
delle voci dal vivo seguendo una partitura per ciascun attore. Il terzo
computer è utilizzato per il controllo delle luci in sincrono con
il suono. Per fare tutto lo spettacolo "a mano" occorrerebbero più
di dieci operatori, ed una grande confusione, mentre noi siamo soltanto
in due. L'unica cosa che dobbiamo controllare parzialmente a mano è
movimento delle voci nello spazio seguendo il movimento degli attori.
Per quanto riguarda il rapporto
tra i tempi degli attori e i tempi delle sequenze di solito sono gli attori
a seguire ed a prendere i riferimenti dai suoni e dalle luci, cosa che
li obbliga inizialmente ad un lavoro di apprendimento più lungo,
ma che in seguito quando, i tempi sono ben calibrati, aumenta la loro sicurezza.
Naturalmente è possibile anche il contrario, far seguire gli attori
dalle macchine, anche se tecnicamente è un po' più complicato.
Nell'Alcina per esempio ci sono dei momenti in cui è Ermanna
che da il tempo di riferimento e tutti si adeguano a lei. Nel 1995 ho scritto
Macchine Virtuose, un concerto per il gruppo di percussionisti Ars
Ludi dove gli esecutori sono il riferimento dei computer, che seguono perfettamente
ogni loro minima variazione di tempo e di dinamica.
Nell'amplificazione dal vivo c'è
un aspetto nuovo che spesso inquieta molto i musicisti, ma in particolare
gli attori: il non controllo totale della propria emissione sonora. La
voce amplificata viene diffusa da un altoparlante, che per motivi tecnici
non può essere troppo vicino alla fonte sonora, perciò l'attore
non può ascoltare il risultato della propria voce amplificata esattamente
come si ascolta in platea, a meno di non impiegare un complesso sistema
di cuffie (hear monitor). L'attore è costretto perciò
a fidarsi dell'operatore che controlla i microfoni, e questo fa dell'operatore
un vero e proprio interprete che si frappone fra il suono dal vivo ed il
suono amplificato.
Negli anni Sessanta Karlheinz Stockhausen
ha composto Microphonie II per tam-tam amplificato e filtrato e
questo è, a mia conoscenza, il primo lavoro che impiega in musica
un concetto di orchestrazione "in serie", cioè con modificazioni
a catena di uno stesso suono, in alternativa all'orchestrazione tradizionale
"in parallelo", dove i suoni prodotti individualmente dai vari orchestrali
si sommano. Nel pezzo di Stockhusen due esecutori suonano un tam-tam del
diametro d due metri. Due esecutori amplificano il suono tenendo in mano
un microfono ciascuno selezionando solo alcuni dettagli del suono da amplificare
secondo una partitura specifica. Altri due esecutori modificano il suono
preso dai microfoni variando due filtri, anche loro secondo una specifica
parte. Per il mio lavoro in teatro questo trattamento successivo del suono
amplificato è molto importante, perché così è
possibile manipolare in modo musicale le voci degli attori.
In Italia normalmente si considera
il lavoro dell'operatore elettronico come una mansione puramente tecnica
ed è questa la causa dell'estrema arretratezza nell'uso delle nuove
tecnologie. Ho ascoltato molti concerti completamente rovinati da una cattiva
amplificazione. E nell'ambito teatrale ho visto anche di peggio. In teatro
la tecnologia usata per il suono risale per lo più a trent'anni
fa: vengono sistemati due altoparlanti ai lati del palco e da li vengono
mandati tutti i suoni registrati e quelli dal vivo. Così suoni e
immagini non corrispondono più spazialmente e mentre l'attore parla
in una posizione, il suono della sua voce si ascolta da tutt'altra parte
magari mescolato con altre voci. Una tale dimostrazione di barbarie è
oggi inconcepibile se si pensa all'alta qualità tecnica disponibile
(che per esempio il cinema sfrutta con molta efficacia).
Una parte fondamentale del lavoro
di un musicista che lavora con l'elettroacustica è la progettazione
dello spazio sonoro. Nella realizzazione di uno spettacolo per me è
prioritaria la progettazione di un sistema di diffusione che ricrei uno
spazio sonoro artificiale così come viene fatto per l'immagine dallo
scenografo e dal disegnatore luci. Questo spazio sonoro deve considerare
non solo la scena ma tutto lo spazio in cui avviene la rappresentazione,
spettatori compresi. Le voci degli attori devono per questo devono essere
amplificate e riposizionate nello spazio.
Quale può essere oggi la funzione del teatro musicale? Penso anche ai costi di produzione allestimento, alla situazione dei teatri lirici e del loro pubblico...
La nostra cultura sta andando sempre
più verso una visione olistica del mondo e anche tra i vari linguaggi
artistici è sempre più forte la necessità del superamento
degli schemi tradizionali verso una maggiore interazione, di conseguenza
le modalità di comunicazione di oggi richiedono linguaggi di tipo
logico superiore ai precedenti.
Il teatro in questi ultimi anni
ha dimostrato di essere disponibile a un rinnovamento in questo senso ed
è diventato sempre più la sede naturale nella quale confluiscono
tutte le arti per dare vita ad un ambiente creativo globale. In tutto ciò
la musica, intesa nella sua accezione più ampia di arte di organizzare
suoni, ha un ruolo fondamentale e insostituibile.
Il rapporto tra parola e suono
è sempre stato di grande importanza nella musica e la sua espressione
più alta è stata in passato il melodramma e l'opera lirica
sette e ottocentesca. Oggi invece la riproposizione della tecnica del bel
canto nella musica è difficilmente praticabile. Una dimostrazione
spesso imbarazzante di questo sono la maggioranza delle opere liriche contemporanee
che si mantengono legate a questa tecnica. Inoltre gli enti lirici italiani
si sono dimostrati inadatti a ospitare e a promuovere al loro interno nuove
forme musicali, sia dal punto di vista artistico, sia dal punto di vista
tecnico e organizzativo. Nei teatri lirici si continuano a rappresentare
quasi esclusivamente le opere del passato con orchestre e cantanti che
ne perpetuano la tradizione, mentre a giustificazione del nuovo si rinnovano
gli allestimenti impiegando le tecniche più avanzate.
Per questo le opere contemporanee
hanno necessità di trovare spazi alternativi. Compito non facile
visto anche l'orientamento del sistema di finanziamento pubblico completamente
sbilanciato verso la tradizione e con preoccupanti tentazioni verso la
musica leggera.
Credo che l'ambiente del teatro
di ricerca sia in questo momento molto ricettivo anche per quel che riguarda
la nuova musica. Lo dimostra l'attenzione sempre più grande che
molte compagnie di teatro dimostrano verso la musica contemporanea e l'esigenza,
sempre più diffusa, di collaborazione con i musicisti nella creazione
di nuovi spettacoli in cui la musica sia una parte integrante dell'ideazione.
In questa direzione è rivolto
il mio lavoro con il Teatro delle Albe e con Fanny & Alexander che
ha dato risultati interessanti sia dal punto di vista teatrale che musicale.
Credo comunque che il teatro musicale,
oltre a cercare nuovi spazi alternativi, debba avere la forza intellettuale
di avventurarsi in territori più vasti e di confrontarsi con le
altre forme artistiche.
Continuare a parlare di teatro
musicale nei termini tradizionali significherebbe isolare ancora di più
la musica contemporanea, e relegarla nella torre d'avorio nella quale è
isolata già da troppo tempo.
I
Testori di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi
di Oliviero Ponte
di Pino
Debutta in questi
giorni a Benevento L'Ambleto, il nuovo atteso Testori di Sandro
Lombardi (protagonista) e Federico Tiezzi (regista). Questo saggio, dedicato
al percorso di Lombardi e Tiezzi nella drammaturgia di Testori, è
stato scritto per il catalogo di "Oltre 90", la rassegna che ospiterà
lo spettacolo a Milano tra poche settimane.
Un set di 4 CD Lombardi-Testori
è stato pubblicato di recenti da Rai-Eri.
Tanto per cominciare, bisogna subito
dire che Giovanni Testori è uno dei più importanti drammaturghi
italiani, perché ha trovato una soluzione al grande problema del
nostro teatro - non l'unica soluzione possibile, certo, ma almeno una soluzione
convincente e praticabile.
Il problema è ovviamente
l'assenza di un italiano parlato teatralmente convincente - una lingua
reale, effettivamente parlata, che possa suonare viva e credibile. Così
i nostri scrittori hanno attinto alle radici dialettali (a partire dalle
grandi tradizioni teatrali, dal veneto di Goldoni al napoletano di Eduardo),
oppure si sono in qualche modo "inventati" la loro lingua, da Alfieri (che
Testori stesso portò in scena come regista) a Pirandello (che peraltro
aveva iniziato a scrivere in siciliano). Lungo il primo filone, il dialetto
promette una naturalezza che l'italiano parlato non ha mai avuto - almeno
fino all'avvento della neolingua televisiva. Nel secondo, una parola cristallizzata
attraverso procedimenti poetici intellettuali persegue la forza della suggestione
musicale oppure l'impatto di una comunicazione logicamente impeccabile.
L'operazione condotta da Testori
a partire dalla "Trilogia degli Scarrozzanti" non sceglie né l'una
né l'altra strada, o meglio le fonde nella ricerca di una parola
che non sia solo segno ma che affidata all'attore possa diventare anche
gesto, azione, corpo.
Certamente il dialetto - in qualche
modo lingua materna - è uno degli ingredienti su cui lavora la sua
scrittura, e sembra fornire spesso la polpa di questa ur-lingua. Tuttavia
quello di un Testori dialettale è un equivoco parallelo a quello
che aveva accompagnato gli inizi della sua carriera di scrittore e che
lo inseriva nel clima neorealista dell'epoca: basta però seguire
la parabola dei protagonisti - meglio, delle protagoniste, a cominciare
dall'Arialda - dei suoi primi testi per cogliere la struttura profonda
del percorso degli eroi delle sue opere più mature.
Perché nell'impasto testoriano
non si trova solo un dialetto, peraltro ricostruito a posteriori: vi s'intarsiano
anche altre lingue vive (a cominciare dal francese e dall'inglese) e morte
(soprattutto la lingua della liturgia, il latino, com'è ovvio).
Va subito precisato che siamo distanti anche dal mosaico barocco e dalle
ironiche stratificazioni di dialetti e gerghi attraverso cui Gadda interpreta
e fotografa la molteplicità del reale e le sue cangianti sfaccettature.
Nel caso di Testori - che non a caso eccelle nell'arte del monologo-confessione
- la prospettiva è invece sostanzialmente soggettiva e introspettiva.
Fino a condensare e oggettivare a volte l'ossessione di un personaggio
in un tic linguistico che diventa il sintomo di un'ossessione, come accade
con la maniacale "s" privativa dello Sfaust. Perché questo impasto
è sottoposto a una metodica torsione espressionista, grazie anche
alla facilità con cui la lingua italiana coltiva il proliferare
di prefissi e suffissi (accrescitivi, diminutivi, spregiativi...). Infine
il tutto viene magistralmente ricomposto in una forma chiusa, poeticamente
e musicalmente inevitabile.
Non si tratta dunque di una regressione
verso il dialetto, ma di un processo costruttivo che per quanto riguarda
l'aspetto formale si può accostare ai metodi destabilizzanti delle
avanguardie novecentesche; e che si fa carico della crisi del soggetto
di cui quelle stesse avanguardie sono il sintomo alla ricerca di una nuova
soluzione: sospingendo ogni volta il personaggio fino al punto di rottura,
fino alla soglia della dissoluzione e della morte, per ritrovare lì,
in quel punto estremo, la possibilità di trovargli un senso - secondo
il paradosso esplorato da Samuel Beckett, ma cercando una soluzione nell'intreccio
tra l'Io, il Padre, la Madre e l'Altro.
Così costruita, questa lingua
immaginaria risulta sempre decentrata, instabile, elastica, lontana da
qualunque parlata reale, effettiva. Può diventare viva solo ed esclusivamente
se un attore se ne appropria: se la usa, se vi s'immerge, se se ne appropria
al termine di un autentico combattimento. Per farlo deve compiere il tragitto
che separa la sua lingua naturale da questa parola eccentrica, in un movimento
simmetrico rispetto a quello compiuto da Testori per plasmarla. Solo con
questo gesto l'attore - "colui che agisce" - può incarnare la parola,
e ritrovarsi in essa, in una naturalezza che è recupero di una dimensione
personale, intima, originaria. E al tempo stesso questa parola si rivela
perfettamente formalizzata, oggettiva - perché in essa risiede la
verità estrema dell'essere umano. Da parte dell'attore è
un atto d'amore e di lotta, un'autentica incarnazione, dove risuona la
necessità profonda del teatro di Testori: la sua natura di rito,
e quasi di sacramento.
Non è un mistero che Testori
abbia scritto i suoi capolavori in stretto rapporto con due interpreti
come Franco Parenti e Franco Branciaroli. Due straordinari sodalizi (con
Branciaroli lo stesso autore calcò addirittura le scene, fungendo
da "spalla" per In exitu ma soprattutto esibendosi con particolare
coraggio in una performance straordinaria ma poco vista, Verbò),
con testi che sembravano concepiti su misura (dove "su misura" non significa
che Testori si sia limitato a usare le loro qualità e capacità
tecniche, ma che ha saputo cogliere l'attore che c'era in loro - a loro
stessa insaputa - per trasformarlo in qualcos'altro, sospingendolo oltre
i suoi limiti) per due interpreti indubitabilmente "lumbard". Con risultati
di folgorante interesse, ma anche con il rischio di limitare la portata
del suo lavoro, riducendolo a un ambito locale, seppur di altissimo livello,
e perpetuando l'equivoco di una drammaturgia in sostanza dialettale.
Il lavoro condotto in questi anni
da Sandro Lombardi e da Federico Tiezzi (con la preziosa consulenza di
Giovanni Agosti), in un progetto di ampio respiro e dedizione, con quattro
spettacoli prodotti nel giro di pochi anni, ha cambiato e sta cambiando
la nostra percezione dell'incandescente laboratorio testoriano. Da un lato
ne ha sottolineato l'importanza e il valore, compiendo un'esplorazione
che nessuno dei grandi teatri stabili del nostro paese ha mai pensato di
affrontare: ed è riuscito a imporre definitivamente l'autore nel
canone della drammaturgia italiana. Per raggiungere questo obiettivo, ha
dovuto sgombrare il campo da pregiudizi limitativi e fuorvianti, per non
parlare delle preclusioni ideologiche che hanno ha lungo marginalizzato
l'autore e dei pregiudizi che lo catalogavano come "poco vendibile" ai
botteghini.
Le interpretazioni di Sandro Lombardi,
nella loro precisione di lettura, rappresentano un'autentica operazione
critica. L'aderenza al testo, alle sue strutture grammaticali e sintattiche,
la umile e meticolosa chiarificazione del senso, il rispetto del ritmo
e dei metri - insomma, quel porsi al servizio dell'opera che è il
presupposto delle sue interpretazioni - consentono ogni volta, frase dopo
frase, parola dopo parola, gesto dopo gesto, quel misterioso rito d'incarnazione
laica che è forse la prerogativa più peculiare dell'attore.
Proprio in questa riappropriazione della parola si riaccende ogni volta
la dinamica che la lingua di Testori richiede ai suoi interpreti.
Sul versante dell'attore, il lavoro
registico di Federico Tiezzi è stato un costante esercizio di semplificazione
e quasi di purificazione - o meglio, di concentrazione dell'energia. Al
contempo, per ogni spettacolo ha costruito una rete di segni di limpida
contemporaneità, attingendo al repertorio di esperienze e di immagini
dei Magazzini. Anche in questo sta il senso di un'operazione insieme critica
e creativa: creare costanti cortocircuiti tra il linguaggio teatrale di
Testori e le sperimentazioni del teatro contemporaneo.
Peraltro nel percorso esistenziale
e poetico di Lombardi-Tiezzi e di Testori si trovano alcuni punti di tangenza,
anche se in prospettive radicalmente diverse. Basti pensare, per esempio,
al ruolo che hanno l'esperienza del limite e della trasgressione: per gli
uni vissuta come portato delle esperienze "liberatorie" degli anni Sessanta
e Settanta, per l'altro inscritta nella logica cattolica del peccato. E
ancora alla costante consapevolezza del gioco teatrale, con la sua aura
insieme tragica e ironica, assoluta e beffarda, metafisica e stracciona:
da un lato affinata nel periodo del teatro "analitico-esistenziale", e
in particolare nella scoperta della convenzionalità di ogni gioco
linguistico ispirata da Wittgenstein e al suo Tractatus, spesso
citato dal Carrozzone degli anni Settanta; mentre dall'altro riecheggia
tutta la problematica barocca del Gran Teatro del Mondo. E' anche in queste
convergenze che si può misurare la ricchezza del progetto, e l'energia
che trasmette ogni sera Sandro Lombardi ai suoi spettatori.
Appuntamento al prossimo numero.
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