ateatro
numero 16 - 27 luglio
2001
a cura di Oliviero
Ponte di Pino
INDICE
A
pranzo con le Ariette
di
Oliviero Ponte di Pino
seguito
da un
Frettoloso
diario da Santarcangelo
Carta
d'Intenti del teatro per l'infanzia e la gioventù
la
discussione continua con gli interventi di
Gigi
Gherzi (Tracce di riflessione),
Carlo
Bruni (Oltre le terre dell'infanzia),
Nicola
Viesti (Il teatro per i ragazzi come racconto e come
metafora)
Genova
platea dell'umanità
(Il
G8 come opera d'arte totale, parte I)
di
Oliviero Ponte di Pino
Comunicazioni di servizio
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Il 10 luglio è morto Guido Almansi. Sapevo che stava male da tempo e che di recente le sue condizioni erano peggiorate. E sapevo delle sofferenze che aveva attraversato in questi anni da sua moglie Claude. Insomma, me l'aspettavo, ma come sempre – anche quando la morte sembra arrivare come una liberazione da lungo attesa – la notizia mi colpisce. Guido aveva carattere (fin troppo, a parere di alcuni), aveva molte curiosità, aveva dei gusti (diversi dai miei, probabilmente, certo formati nei lunghi soggiorni inglesi – dove il teatro ha una tradizione con una sua dignità ed efficacia). Nel momento in cui delle ideologie (con i loro corollari estetici) non erano rimasti che i gusci vuoti, ha buttato sul piatto i suoi umori, le sue idiosincrasie, le sue passioni e curiosità, la sua erudizione e l'insofferenza per la banalità. Con tutta la loro forza di provocazione e tutta la loro solitaria debolezza. Ma in ogni caso ci vuole un coraggio da cavaliere solitario per gettarsi come faceva lui nella mischia e nella polemica, con gusto e con piacere – e magari un pizzico di perfidia. Era un metodo per cercare di restare libero.
Se per caso vi capita di passare da Firenze, agli Uffizi c'è una bellissima (ed erudita) mostra di disegni curata da Giovanni Agosti, Disegni del Rinascimenti in Valpadana. C'è anche un poderoso catalogo (pubblicato da Olschki): se vi capita di spaventarvi per la cura filologica e la potenza dell'apparato, leggetevi le ultime righe dell'ultima scheda (dedicata a un disegno del Romanino): "Anche se non si hanno più vent'anni, è difficile non continuare ad intendere Romanino come chi non ha paura di rifiutare apertamente la società che lo circonda e i valori su cui essa è costruita" (p. 474). Dove il "chi", forse, non è riferito solo all'artista…
Appena posso, qui
si "ateatro" cerco di parlare di economia della
cultura. Nel Frettoloso diario da Santarcangelo si parla
di nofret, un progetto legato alla ricerca di finanziamenti (pubblici
e di sponsor) allo spettacolo. Sempre sul finanziamento allo spettacolo,
negli Stati Uniti è stata condotta una poderosa ricerca (commissionata
dai Pew Charitable Trusts, nata
dalle donazioni di un ricchissimo petroliere, e condotta dalla Rand Corporation).
La conclusione dello
studio che ha esaminato gli ultimi 30 anni della vita culturale americana
è che a maggior rischio sono le istituzioni "medie": più
delle grandi istituzioni di prestigio nazionale o internazionale, più
delle piccole realtà marginali e autogestite. Alla crisi, molte
di queste realtà hanno risposto costruendo un diverso rapporto con
il pubblico o diversificando le attività (corsi, attività
nel sociale eccetera.
È possibile
scaricare per intero il rapporto The
Performing Arts in a New Era (in inglese, formato PDF).
Imperdibile: Chi non legge questo libro è un . I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999. |
A
pranzo con le Ariette
di
Oliviero Ponte di Pino
Guardavo il Teatro da mangiare?
delle Ariette, a Santarcangelo, e mi veniva da piangere. Ho trattenuto
le lacrime, mi sembrava una reazione sproporzionata e fuori luogo.
Ero in una bella casa, con una
stupenda vista sulle colline romagnole (e dal giardino si vedeva persino
il mare!). Seduti come me intorno al tavolo c'erano venti-venticinque persone,
tra cui alcuni amici. Sapevo più o meno il lavoro che stavano facendo
Paola, Stefano e Maurizio, me ne avevano parlato gli amici, avevo letto
qualcosa e visitato il sito.. Alla mattina li avevo già incontrati,
erano le nove e mezza – stavano già tirando la foglia, pulendo le
carote… – e mi ero detto: "Che simpatici!". Adesso mi stavano preparando
un pranzo ottimo (e per di più con ingredienti rigorosamente biologici),
raccontavano la loro storia, e sentivo le lacrime inumidirmi lo sguardo.
Mi sembrava una reazione eccessiva,
la mia – peggio, in contrasto con la situazione in cui mi trovavo, tra
cose che amavo: cibo, teatro, amici … E, ingrediente che non guasta mai,
c'era perfino un pizzico d'autoironia, in quel loro raccontare. Poi ho
scoperto che la stessa emozione – una commozione travolgente, persistente
– l'hanno provata molti altri spettatori delle Ariette. Non tutti quelli
con cui ho parlato, ma quasi.
Così ho pensato di scrivere
questa lettera, agli amici delle Ariette – e per chi avesse voglia di leggerla.
Quando ci siamo tutti si sistemati
ai nostri posti, Paola, al suono dell'Internazionale, con il pugno
alzato, ha cominciato a raccontare che, dopo la caduta del muro nell'89,
avevano abbandonato il teatro, avevano scelto il silenzio e si erano messi
a fare i contadini, in una valle sulle colline sopra Bologna, a Castello
di Serravalle. E io – e noi – avevamo iniziato a mangiare le verdure del
loro orto, come antipasto, e a divorare quel pane ("Cotto sul testo", spiegava
Stefano) e bere quel vino.
Nel frattempo, mentre questo strano
pranzo procedeva tra brandelli di vecchi spettacoli e ricordi personali,
tra informazioni sull'esperienza contadina e sul cibo (rigorosamente biologico!)
che ci veniva servito, si srotolava anche la ritualità del cibo:
la preparazione e la cottura, i piatti e le bottiglie portate in tavola
(e spezzare il pane, e versare il vino). Quei gesti che ripetiamo mille
volte, ogni giorno, e che senza che ce ne accorgiamo possono assumere una
potenza magica: perché mettono in relazione il microcosmo e il macrocosmo,
la più privata delle esperienze con la catena dell'essere.
La più privata delle esperienze…
Perché le Ariette ci confidano anche esperienze molto personali,
private – vere: il rapporto con gli animali della fattoria (guardiamo le
foto che Paola ha fatto girare tra i commensali), il fatto di avere o non
avere avuto bambini...
Mentre ascolto queste confidenze,
e intanto continuo a mangiare e butto giù un altro sorso di vino
per distrarre le lacrime e stordirmi un po', penso: "Non importa tanto
quello che dicono o fanno, che sia bello o che sia brutto, possono essere
bravi attori o cani" (mentre "teatralmente" sono bravi e astuti – efficacissimi,
a giudicare dalla mia commozione). "Ma non importa: l'importante è
quello che sono, e perché sentono il bisogno di fare quello che
fanno".
(C'è un rumore sapiente,
a un certo punto: quello dei gusci di noci o mandorle che vengono spezzati…)
Perché è un gesto
estremo, quello di mettersi così a nudo, senza filtri, senza porsi
un limite. Forse un po' ambiguo, verrebbe da dire, nell'epoca del Grande
fratello, anche se qui ci sono certo delle diversità: in primo luogo
c'è il tentativo di trasmettere un'esperienza (e a pochi ospiti).
Poi c'è come un aspetto di espiazione, di dolorosa confessione pubblica.
E, ancora, c'è chiaro il fatto di operare in un ambito estetico
come quello del teatro, anche se ai suoi margini, come per ridefinirne
i confini rimescolando l'arte con la vita.
Del resto questa non è una
novità. Molta arte del Novecento si è affilata a distruggere
il confine che separa l'arte e la vita. Trasformare la nostra esistenza,
il mondo intero in un'opera d'arte (per certi aspetti, ci hanno provato
anche Hitler e Stalin). E simmetricamente assimilare la realtà,
anche nei suoi aspetti più minimi e degradati, all'opera d'arte.
Forse è proprio sull'onda di questo estetismo, di questa generosa
confusione tra l'anima e la forma (come avrebbe detto Lukács, che
le Ariette, prima della caduta del muro, avranno certamente letto) che
l'arte moderna ha perso il senso della tragedia.
Invece, davanti a questo strip
tease dell'anima (e di una storia individuale e collettiva, generazionale),
penso: "Questa è la cosa più tragica che ho visto in questi
anni", anche se poi non c'è assolutamente nulla di tragico, anzi:
per certi aspetti, scherzo tra me e me, potrebbe essere un'idea promozionale
per qualche ristorante per palati fini e colti, il "pranzo spettacolo",
magari con qualche cabarettista…
Cerco di sorridere, e invece sono
qui, turbato e commosso, perché quella che mi si srotola davanti
è la mia storia. E sento – e mi fa male – come sono piccole, e fragili,
le nostre vite. La mia, proprio come quella di Stefano, Paola, Maurizio,
che mi stanno raccontando la loro esperienza, e come quella di chi siede
accanto a me, intorno al tavolo. In fondo quella che raccontano le Ariette
è la storia di una generazione, della mia generazione, che aveva
creduto di poter cambiare il mondo, che s'illudeva di aver trovato gli
strumenti per farlo (un po' anche di aver trovato una chiave ideologica
per riuscire a farlo, e in questo è una generazione diversa da quelle
che sono venute dopo), e che a un certo punto s'è accorta che questo
strumento non serviva, che il mondo andava in tutta un'altra direzione,
e che la loro vita, e il loro destino, stava andando verso l'autodistruzione
o verso una di quelle secche della storia dove non accade più nulla,
o almeno così pare. Per certi aspetti, non è un errore: è
una colpa. Una tragedia individuale e di popolo.
Ma che coraggio ci vuole per assumerla
su di sé, questa colpa (insomma, per dire che non è stata
un'ingenuità giovanile, che non sono stati i cattivi maestri, che
non è l'eterogenesi dei fini: è la mia colpa). E che disperazione
ci vuole per decidere di cercare in questo modo il senso del proprio destino.
Così, in pubblico, collettivamente, come se di suo, questo destino,
nel suo semplice e puro esistere, un senso non lo potesse più avere,
più trovare.
Questo, credo, è il senso
tragico dell'esperienza che sto vivendo oggi, insieme alle Ariette e ad
altri 25 commensali. Questo Teatro da mangiare? ci immerge nel flusso della
vita – un pranzo, il ciclo delle stagioni cui rimandano i prodotti della
terra – e da questo caos cerca di estrarre una forma, un segno.
(Intanto faccio queste riflessioni,
sui taglieri posti tutt'intorno al tavolo, Stefano arrotola la sfoglia
che ha iniziato a tirare alla mattina, prende il coltello e inizia ad affondarlo
con precisione antica.)
Come nelle tragedie antiche, la
colpa resta, ma viene portata alla luce. Ma la catena della colpa, a questo
punto, può forse essere spezzata? (Ma intanto, a chiudere lo spettacolo
delle Ariette, si sente cantare Je ne regrette rien, naturalmente…)
Così, mentre finisco di
scrivere e rileggere questi appunti, su uno strano e ottimo pranzo, ho
nella testa le impressioni ancora confuse di quello che è successo
in questi giorni a Genova, e di tutte le memorie che mi ha riportato alla
luce, dagli anni Settanta, e delle lotte e delle tragedie di quegli anni,
e di come è cominciata e di come è andata a finire, e di
come tante cose fossero orribilmente prevedibili. E mi chiedo allora se
questa tragedia – la tragedia che le Ariette hanno vissuto e rivissuto
– debba ancora una volta ricominciare a sorgere dal ribollire confuso della
vita, dei suoi slanci, delle sue ingenuità e della sua ottusa ferocia.
O se noi, in qualche modo purificati da quello che abbiamo vissuto e visto,
dalla forma fragile che ha trovato la nostra esperienza, possiamo essere
solo testimoni – un po' cinici (e dunque disincantati e lontani), un po'
nostalgici (e magari pronti a ributtarci nella lotta a ogni sventolar di
bandiere). O se nel nostro destino possiamo ancora cercare un punto d'equilibrio
tra le ingenuità e il disincanto.
Intanto, per adesso, a voi delle
Ariette grazie della vostra storia e delle vostre tagliatelle, e a chi
ha avuto la pazienza di leggere si qui, la voglia di sapere che ne pensate.
Un
frettoloso diario da Santarcangelo
di
Oliviero Ponte di Pino
Mercoledì.
Partenza tra le sei e le sette da Milano. Arrivo a Santarcangelo verso
le dieci e mezza, e nello spiazzo assolato del parcheggio, proprio dietro
il tendone del Circo Inferno Cabaret, come l'anno scorso, incontro
Paolo con la macchina di Tournée (la trasmissione di Raitre
per cui devo curare qualche diretta in questi tre giorni romagnoli) e la
sue belle decalcomanie di Radiotre.
A mezzogiorno, più o meno,
primo collegamento in diretta con Angelo Generali e Aurelia Camporesi (c'era
anche Petra, piccola piccola sotto un sole che uccide) sull'Aida
da stalla (i testi glieli ha trovato Remo Melloni, gran custode dei segreti
dei burattini). L'anno scorso, sempre per Tournée avevo usati
i testi del babbo di Aurelia, Piero, come leit-motiv dei collegamenti e
mi sembra di buon auspicio ripartire da qui. Poi arrivano, sempre in diretta,
Luigi e Marco di Fanny & Alexander, con il disco delle musiche di Luigi
Ceccarelli per il loro Requiem. Insomma, da tutte e due le parti
teatro e musica. Nell'insieme sole a picco, su quello spiazzo sterrato,
da far colare il cervello fuori dalle orecchie.
Svaporato, chiedo aiuto a Cri (alias
Cristina Ventrucci): arriverà un meraviglioso gazebo (che pone qualche
difficoltà ai solerti addetti al montaggio, che evidentemente non
hanno fatto molto campeggio) che ribattezzo PalaTournée:
riparerà l'inviato & gli ospiti dal micidiale sole romagnolo.
A pranzo con Renato (Palazzi) –
obbligatorie le tagliatelle di Zaghini – che racconta delle disavventure
del suo bel libro kantoriano.
Primo pomeriggio, gita verso Gambettola,
nella gita ho imbarcato anche (promettendogli una sorpresa) Domenico Castaldo.
Perché a Gambettola, un paesino di tre anime dove (oltre a Pascucci,
che produce lini con metodi di stampa vecchi di secoli) c'è la Tecnogym,
uno dei più grossi produttori mondiali di attrezzi per il fitness
e la wellness (o la fitness e il wellness?). Anzi, è il secondo
(tra i primi 15 del settore, gli altri 14 sono USA) ma tra poco - dicono
- diventerà il primo. Sono curioso di capire come reagisce un artista
del corpo come Domenico, di cui apprezzo il rigore, a una cultura del corpo
così diversa dalla sua. Insomma, ho un piano – anche se tutti gli
altri componenti della missione sono mooolto perplessi.
Ci accoglie il dottor Cicognani, il boss delle Pr Tecnogym,
ha da fare, ci chiede di aspettare, chiedo di aspettare nella palestra
dove ci sono tutti gli attrezzi – decine e decine, per tutti i muscoli
(anche quelli che non hai). Quando torna (dopo approfondito collaudo delle
macchine da parte dei santarcangiolesi) ci racconta della storia dell'azienda,
della sua filosofia, del segreto delle vittorie di Schumacher (i piloti
di Formula 1 a ogni curva si beccano uno schiaffone da 3,5-4 G (ovvero
3,5-4 volte la forza di gravità), e all'uscita le pulsazioni schizzano
in alto, perciò si è fatto fare un attrezzo apposito) e ci
illustra le nuove macchine – che hanno la struttura fatta di tubi ovali.
Perché mai ovali?, chiedo. La risposta di Cicognani è la riprova dell'efficacia
del metodo Tecnogym: il nostro Virgilio mi indica un manifesto; "Perché
per noi l'ovale è la forma perfetta, la forma dell'intelligenza"
(attenzione: non è importante se sia vero o no, l'importante è
fartelo credere), poi perché una forma smussata diminuisce i microtraumi
di chi va in palestra, e infine perché così gli attrezzi
sono più facili da pulire (per i più tonti: a colpirmi è
il mix di metafore e esigenze pratiche, di principi estetico-filosofici
e preoccupazioni quotidiane). Per quanto riguarda l'intervista, mi sembra
funzioni (giudicheranno domani gli ascoltatori di Radiotre).
Per il collegamento delle 18, telefonata
in diretta con Bruno Gambarotta (è una storia lunga, l'anno scorso
ha scritto un pezzo su Tournée che finiva più o meno
"Diavolo d'un Ponte di Pino, fai venir voglia di andare a Santarcangelo"),
e così ieri sera è venuto qui a parlare di Dame Frances Yates,
dell'arte della memoria e della mensa Rai di Torino con le sue polpette
assassine…), e intervista a Gene Gnocchi e alla capra che gli fa da spalla
nel suo nuovo spettacolo (Dentro il teatro la capra crepa…, ma noi
siamo ancora fuori…). L'immagine non dev'essere male: una macchina Rai
con il baule spalancato, lì dietro un gazebo e, seduti sulla panchetta
di ferro arroventata dal sole del tramonto, io e Gene, e lì accanto
– non siamo riusciti a metterla sotto la panca – la capra…
In piazza incontro Massimo (Eusebio),
che si occupa dell'aspetto musicale (e che mi fornisce i brani musicali
per collegare i vari servizi), mi porta da Graziano Spinosi, che fa lo
scultore e che intervisterò domani. Si gode il tramonto dal bar,
mi sgrida subito perché sono andato alla Tecnogym ("Non ci sono
i sindacati"), mi racconta che lui è di Gambettola, che da piccolo
s'arrampicava sempre sui mucchi del ferrovecchio (adesso per le sue sculture
lavora soprattutto il ferro…).
Dopo lo spettacolo di Gene (o meglio,
il primo pezzo del suo prossimo spettacolo) al tendone, scendo a Igea Marina
per lo spettacolo di mezzanotte, Se la nuì di Alfonso Santagata
(che si esibirà con una aggressiva magliettina panterata rossa).
Arriviamo nella vecchia colonia, poco lontano dal mare, nell'intenso odore
dei fiori in decomposizione. Un edificio abbandonato da anni, costruito
negli anni Trenta – e a forma di M, come Mussolini. Alfonso ci ha
ambientato uno divertente e sfrangiato noir, la colonia è diventata
un albergo a ore (ma il centralinista smista anche le ambulanze), nella
hall si scontrano marginali e sbandati, che si espongono e si scontrano
con violenza e ironia. Man mano che veniamo condotti nelle varie stanze,
l'edificio si anima di visioni, al secondo piano è una lunga sequenza
onirica, fatta di suggestioni e scarti improvvisi. Se la nuì
è il sogno di una tribù di marginali, è un incubo
e insieme utopia. C'è qualche ingenuità nella recitazione
di alcuni tra gli interpreti più giovani, per certi aspetti il racconto
procede per frammenti e suggestioni, ma intanto il luogo e le atmosfere
per un paio d'ore portano in un altrove dove ancora vibrano – forse per
l'ultima volta, in un mondo sempre più normalizzato – i sentimenti.
Giovedì.
Sono le otto e mezza quando scendo a far colazione, c'è Goffredo
(Fofi), parliamo del rilancio della sua (ultima, per ora) rivista, "Lo
Straniero", mi chiede se voglio esserci anch'io, accetto volentieri, senz'altro:
spesso mi capita di non essere d'accordo con i suoi giudizi, a volte ho
l'impressione che basti avere un po' di (fragile) successo per passare
subito nella sua lista dei cattivi, a volte mi sembra voler spiegare un
po' troppo agli artisti quello che è giusto che facciano, e però
è una persona generosa che ama quello che fa, ed è capace
di rimettersi in discussione, continua a cercare, cerca ogni volta di costruire
relazioni e rapporti, è ancora in grado di entusiasmarsi e di indignarsi.
Poi di corsa a intervistare le
Ariette, che hanno iniziato a tirare la sfoglia per il loro Teatro da
mangiare? Mi sembrano simpatici e veri, domani sarò qui a pranzo,
ospite loro. Mi faccio spiegare bene cosa c'è da mangiare (e mi
confidano la ricetta del sugo delle loro epiche tagliatelle – ma non riuscirò
a mandarla in onda).
Corro a montare i servizi con Paolo
(sotto il sole a picco), a un certo punto dalla Radio Svizzera Fattorini
mi chiama per un'intervista sulla Maratona di Milano (tra due giorni!!!).
In diretta arriva Alfonso, poi uno via l'altro i servizi sulla Tecnogym
e sulle Ariette.
A pranzo con Massimo Marino (ri-tagliatelle!),
gli spiego (almeno ci provo) perché a questo punto mi sento poco
coinvolto nel progetto di "Art'o", dopo di che Massimo. E poi intervista
a Fulvio Liberatore e Giovanna Fellegara che hanno spiegato (in convegno)
come farsi dare soldi per la cultura (se volete saperne di più,
provate Nofret
Nel pomeriggio, con Cristina andiamo
in pellegrinaggio al campo della Mutoid Waste Company, proprio qui
dietro, accanto al Marecchia. Sculture e rottami, case mobili, capannoni
(autentico Mad Max). Bello e duro. Gironzoliamo, piglio qualche
appunto radiofonico. La cosa incredibile è che in questo luogo automarginalizzato
e desolato, arriva un furgone della Ducati e lascia giù una preziosissima
cassa di ricambi, che servono a costruire un incredibile cane meccanico.
(Anyway, ancora ferro…) Poi passo nello studio di Graziano (Spinosi) che
è proprio lì dietro: in realtà è una vera e
propria bottega di fabbro ferraio, con tubi e tondini, saldatrici e paranchi,
e scheletri di sculture. Quando Graziano parla del ferro, di come lo salda,
di come invecchia, capisci che per lui è vivo. Le sue sculture nascono
in serie: ci sono per esempio serie di libri illeggibili (legati, inchiodati,
incisi, e nell'ultimo, il settimo, dalle pagine sbuca una mano che non
si capisce se sia stata rinserrata lì dentro o se stia finalmente
per uscirne). E una serie di pennelli-pugnali, l'arte è per certi
aspetti una lotta, può far male – soprattutto però, mi vien
da pensare, a chi la fa davvero…
Appena finita la trasmissione (per
l'occasione, oltre a Spinosi, ho sequestrato anche Daniela e Enrico dei
Motus, che stanno sistemando la loro Visio gloriosa proprio là
sopra, allo Sferisterio), corro a vedere un pezzo (solo un pezzo) dello
spettacolo di Garabombo T., Virus, che racconta la scoperta del
virus dell'Aids. O meglio, della sua non-scoperta, come cercano di spiegare
Alessandro Pozzetti (che è anche il narratore) e Domenico Ferrari.
Teatro di narrazione – ancora una volta, la scena diventa forse un mezzo
per cercare di capire quello che la scuola e i mass media non riescono
più a trasmettere. Non so se sia giusto chiedere al teatro questa
funzione di supplenza, ma siccome un altro dei temi che mi affascina di
questi tempi è il rapporto tra teatro e scienza (vedi nell'archivio
di "ateatro" lo spazio dedicato alla trilogia di Rossotiziano), domani
a mezzogiorno in trasmissione chiamerò loro e Mimmo Sorrentino,
che qui a Santarcangelo ha portato il suo Da Mistretta a Gödel
(il modo di lavorare di Mimmo mi stimola: si capisce che non gli interessa
tanto il teatro di per sé, sembra sempre che arrivi dall'esterno
del teatro per usarlo per qualche suo fine, come se fosse un pretesto e
insieme un esperimento scientifico, quasi: e allora ecco la ragione di
certe ingenuità, ma anche il senso della necessità dei suoi
lavori. E siccome è una persona intelligente e riflessiva, i risultati
possono essere sconcertanti, magari discutibili, ma non banali).
Poi in pullman verso la cava di
Torriana (mi ricordo di averci visto un lavoro di Thierry Salmon, sono
passati diversi anni, ormai…) per il Requiem che Fanny & Alexander
hanno presentato pochi giorni fa a Ravenna Festival (dovevano farlo dentro
il cimitero, alla fine l'hanno fatto appena fuori). Anche adesso che il
gruppo si è molto allargato, Luigi e Chiara rimangono ostinatamente
fedele al nucleo della sua ispirazione iniziale: un rito adolescenziale
di amore e morte. E però è affascinante misurare l'evoluzione
e la maturazione della forma di questa favola feroce e autodistruttiva,
soprattutto nel rapporto con il pubblico. In Ponti in core il cerchio
della scenografia (un teatrino anatomico) inglobava gli spettatori – isolati
in scranni – intorno ai due protagonisti; nella Turchinità della
fata il cerchio isolava nello sfondo l'azione dei protagonisti, che lo
spettatore-voyeur poteva osservare attraverso una specie di occhio. Ora,
dopo Romeo e Giulietta (e dopo l'esasperata frontalità della
Turchinità della fata), il cerchio si è insieme aperto
all'infinito, fino a diventare una parete rosso sangue; e insieme chiuso
– perché il regno delle ombre, quello dove Psiche incontra Eros,
o il regno delle ombre, rimane oltre questa parete definitiva, invisibile
agli spettatori. Per certi aspetti è una mitologia privata che prova
e diventare epica. Ed è anche straordinariamente serio e appassionante
il lavoro condotto con Luigi Ceccarelli, che ha costruito un tessuto sonoro
di grande forza e suggestione. È un tema che mi affascina, quello
del teatro musicale: e di questi tempi ci stanno lavorando in molti, con
chiavi insolite (oltre a Ceccarelli, che ha già musicato la travolgente
Alcina): dal Monteverdi della Raffaello all'Orfeo a fumetti
di Pippo Del Corno, dal Woyzeck di Giorgio Barberio Corsetti, e
poi – su un piano diverso – i Sud Sound System per De Cataldo, il lavoro
di cui mi parla Extramondo su Hamletmaschine... Insomma, un tema
da approfondire… Dopo di che, nel Requiem per certi aspetti la fabula
resta in secondo piano rispetto all'impatto visuale e sonoro; e riemergono
echi della Raffaello (il coniglio-psicopompo rubato all'Alice di
Carroll…) e dell'Alcina: ma forse più che di influenze, è
forse il terreno comune.
È l'una, vado a intervistare
Enzo Moscato: stanno provando le luci a Villa Torlonia, debutta domani
sera. È qualche anno che non ci vediamo, a Milano viene sempre più
di rado (una vergogna), mi fa piacere abbracciarlo, è in grande
forma, il suo trittico Ritornanti è uno degli eventi del
Festival.
Venerdì.
In mattinata montiamo quello che ho registrato, dopo la diretta
corro su in collina, dalle Ariette (tri-tagliatelle!!!), ho raccontato
le mie impressioni in una specie di lettera aperta. Alle sei in trasmissione
arriva Alessandro Ramberti (ovvero Fara Edizioni), legge in diretta un
passo dei Promessi Sposi tradotti in romagnolo (che Manzoni abbia
fatto qualche risciacquo anche da queste parti?) per spiegare da dove arrivano
Guerra e Baldini… E poi Renata (Molinari), che parla della specificità
del "modello romagnolo" non solo e non tanto in termini di estetica, ma
anche di modelli organizzativi.
Finita la diretta, di corsa a Longiano
per Le Argonautiche dove Domenico Castaldo e i suoi quattro attori
raccontano la missione di Giasone e dei suoi alla scoperta del Vello d'Oro.
Anche qui a colpirmi è la serietà del lavoro, davvero impressionante:
la costruzione di un linguaggio del corpo, fatto di gesti, suoni e respiri,
un vero e proprio codice, una grammatica e una sintassi di estremo rigore,
in cui tradurre la storia – qualunque storia, verrebbe da dire. Ci sono
un'attenzione, una cura dei particolari, un'abilità e un'inventiva
nell'uso dei pochi oggetti, una fluidità nel passaggio da una situazione
all'altra, da una scena all'altra che commuovono. È un teatro povero
in apparenza (cinque attori, pochissimi oggetti) ma in realtà ricchissimo,
perché crea un mondo con un sospiro, con una pausa. E ricco di un'energia
solida e pura. Verrebbe voglia di inventare una poesia che potessero raccontare,
trovare una nuova drammaturgia per quei corpi-segni.
Ma adesso basta, domattina devo
partire presto, alle cinque comincia la Maratona, si andrà
avanti fino all'alba… E mentre mi addormento penso a quello che ho potuto
vedere di questo Santarcangelo XXXI. So delle difficoltà
che hanno avuto Silvio (Castiglioni) e Massimo (Marino) a condurre in porto
questa edizione, so che in queste condizioni produrre spettacoli ed eventi
è impossibile (si può fare qualcosa solo sulla base di lunghe
amicizie e militanze comuni), e alla fine i segni di vitalità ci
sono, qualcosa continua a accadere. Non manca qualche strizzatina d'occhio
al grande pubblico (Bruno, Gene, Angela Finocchiaro, la lanciatissima Luciana
Littizzetto), di questi tempi necessaria per tenere insieme la baracca
ma anche per dimostrare che anche il comico ha la sua dignità. Ma
anche la sensazione che per fortuna resta ancora uno spazio in cui vedersi
e incontrarsi, che esiste ancora un tessuto di relazioni e di rapporti
– nel fragile mondo del teatro – che rende possibile uno scambio di esperienze.
Carta
d'intenti del teatro per l'infanzia e la gioventù
L'avevo promesso, e ora con la collaborazione Raffaella Ilari delle Briciole metto in rete alcuni dei contributi suscitati dalla Carta d'Intenti del teatro per l'infanzia e la gioventù stilata da Marco Baliani (la si può leggere in "ateatro 9"), di cui si è parlato nelle scorse settimane a Parma. Altri interventi nei prossimi numeri di "ateatro" (e se qualcuno avesse qualcosa da aggiungere, l'indirizzo lo sapete…).
Tracce
di riflessione
di
Gigi Gherzi
Stato delle cose
“Era un movimento, poi è
diventato un settore, adesso è un mercato”. Così ha esordito
Marco Baliani parlando della situazione in cui vive il teatro per ragazzi
e giovani. Affermazione difficilmente contestabile. Nell'occasione delle
“vetrine”, in cui, molte volte, gruppi teatrali fanno spettacoli simulati
per un pubblico simulato composto di soli operatori, le discussioni più
accese non riguardano le poetiche, il senso, la qualità della scommessa
artistica in atto, ma il fatto “se sia adatto”, “per quale fascia d'età”,
con un atteggiamento in cui la giusta cura per il proprio pubblico si unisce
spesso e si confonde con la necessità del venditore di “piazzare
un prodotto sicuro”.
Un mercato è un mercato
Questo atteggiamento, tipico di
molti mercati culturali, omologante verso il basso, c'è e ci sarà.
Mi interessa capire che spazio ci sarà per quello che non è
solo mercato, come gruppi di artisti, intellettuali e operatori possano
lavorare per costruire un territorio in cui, nella coscienza di essere
minoranza e di non aspirare al “potere nel settore”, si possa lavorare,
creare, sperimentare, ridare senso a una scommessa artistica.
La fine del per
Tornare indietro per immaginare
il futuro. In Italia il teatro ragazzi non è nato “per i ragazzi”.
E' nato dalle esperienze di animazione, dalla messa in crisi delle formule
e del rapporto col pubblico del “teatro borghese”, nel collegamento con
la battaglia anti-autoritaria che vedeva coinvolti genitori, insegnanti,
studenti. E' nato come teatro dell'incontro, come teatro dei-con i ragazzi,
come teatro sociale. Per questo era movimento e non settore.
Il “per” appartiene al settore
e al mercato. Ma il “per” oggi non crea tensione e motivazione artistica.
Non si fa “teatro per i carcerati”, “teatro per gli anziani”, “teatro per
le donne”, “teatro per i tossicodipendenti”. Casomai si fa “teatro sociale”.
Noi invece facciamo “teatro per bambini”. Ma per gli artisti, credo, il
riferimento non può essere “un settore di pubblico”. Il riferimento
è a una condizione esistenziale e sociale, che apre mondi poetici,
che vivifica gli immaginari di artisti e pubblico. Insomma, una poetica
si costruisce nel rapporto con un mondo e poi, come è ovvio, lo
incontra. Incontrando il bambino non si può non incontrare anche
l'adulto. Come qualsiasi grande opera d'arte che crea “poetica dell'infanzia”.
Come Pinocchio che tiene assieme Carmelo Bene, Benigni, Comencini e tanti
gruppi di teatro, “ragazzi” e non, con i rispettivi pubblici di riferimento.
Il teatro dell'incontro
Il teatro dell'incontro non può
essere che un teatro “sperimentale, che “un teatro di ricerca”. Perché
l'incontro vero è sperimentazione, è ricerca. Richiede di
partire da un punto zero, dall'abbandono di ogni tipo di certezza. Richiede
un'attitudine ingenua e selvaggia all'ascolto, la rinuncia la volontà
preordinata di trasmettere valori e morali, la disponibilità a far
nascere la forma finale attraverso cui quell'incontro diventa atto artistico
dalle dinamiche del processo stesso e non da un progetto preordinato. Il
teatro dell'incontro è, in questo senso, una delle grandi poetiche
teatrali del contemporaneo, non l'unica, non meglio di altre, ma sicuramente
al centro di una riflessione sul senso dell'atto artistico oggi che spazza
via la desueta contrapposizione tradizione-avanguardia per aprire territori
nuovi.
Chi è il bambino
Chiede Marco: chi è il bambino
oggi, come lo immaginate? Credo necessario avere il coraggio di dire che
la domanda deve rimanere tale, perché nessuno ha la risposta in
tasca. Dobbiamo rimetterci in ascolto dei segni, degli immaginari che da
quel mondo provengono. Valorizzare al massimo il lavoro di quegli studiosi
che fanno dell'inchiesta lo strumento principe per penetrare in quei territori.
Senza pretese di verità mi sembra però di sentire attorno
a me vivere un bambino e un giovane profondamente diverso da quello che
normalmente viene messo in scena.
La sensazione è quella di
una condizione “senza luoghi”, perché i luoghi dove tradizionalmente
si faceva esperienza del mondo (la scuola, la famiglia, la politica) sono
abitati da fantasmi e svuotati di senso. Da tutti gli incontri che faccio
con ragazzi e bambini mi arriva la sensazione della fine di un modello
“di trasmissione rettilinea dell'esperienza”, un modello cioè per
cui l'adulto, per il solo fatto di avere vissuto, di avere memoria di tante
cose, poteva guidare, indirizzare, aiutare il processo di crescita.
Non è l'apocalisse
Siamo di fronte a un salto grande
nel modo di vedere e vivere nel mondo. Eppure non mi convince l'ipotesi
che il teatro rispetto a tutto ciò che sta cambiando attorno, debba
rivendicare una sorta di “residualità nobile”, di “arcaicità”.
Siamo persone, viviamo in questo tempo, perché coltivare il terrore
del linguaggio “dei media”, del mostro “informatica”, quando quel linguaggio
ci è entrato nella pelle, è nel nostro dna, è nella
vita come realmente è? Non serve, credo, coltivare il mito di una
supposta “autenticità”, tutta mentale, tutta astorica, da difendere
rispetto all'imbarbarimento del mondo moderno. E soprattutto questi discorsi
penso non abbiano proprio alcuna presa sulle persone a cui vogliamo rivolgerci.
Giustamente sentono che “il virtuale” fa parte della loro vita proprio
come la pastasciutta.
Ambiguità della memoria
Ancora oggi il tema della “memoria”
rimane fondamentale. Molti anni sono passati da quando Marco ha lanciato
questo tema, dando vita a una feconda scommessa culturale. Per me rimanere
fedele a quello spirito profondo significa oggi prendere la distanza “dalla
memoria dei pedanti”. Da chi si illude che il solo fatto di “ricordare”
racchiuda in sé una “nobiltà”, una “sacralità”, “un'autorevolezza”
che nobilita l'atto teatrale. Anche il rapporto con la memoria è
oggi più inquieto, più nervoso. Si ricorda per avere armi
con cui combattere. Per necessità culturale e politica assoluta.
“Wu Ming” (officina di scrittura creativa ex Luther Blisset) dice che le
storie sono “asce di guerra da dissotterrare”. Concordo. Ieri a Milano
ho visto uno spettacolo sulla strage di Piazza Fontana, in cui un gruppo
di attori non ancora trentenni, che nel 1969 non c'erano, “ricordavano”
la strage con parole e andamento narrativo spezzato, passando da Pasolini
a Marcos, dalle gite all'Idroscalo ai treni dei pendolari di oggi, dai
vecchi ai nuovi fascismi. Mi ha colpito molto.
Contenuti
La giusta confusione e difficoltà
che si sente nell'affrontare il presente non può trasformarsi nella
rinuncia al dire, nell'affidarsi soltanto alla rivisitazione stilisticamente
sempre più accurata di modelli drammaturgici consolidati. C'è
bisogno di rischiare a dire, col rischio di balbettare, di dire cose parziali.
C'è bisogno di una rete che metta insieme visioni, immagini, dell'infanzia
e della gioventù, di una drammaturgia di questo teatro che valorizzi
competenze di studiosi, di scrittori, di poeti, di artisti visivi, di musicisti.
Tempi e spazio
Il teatro ragazzi-teatro dell'incontro
è uno dei luoghi privilegiati in cui il Teatro si può interrogare
sulle sue modalità di rapporto con lo spettatore, su quello che
succede prima e dopo lo spettacolo, sul senso “dell'evento teatrale”, sul
micro e sul macro. Questo non può essere fatto solo sui palcoscenici
all'italiana, accettando tempi e forme dello spettacolo dettati solo dall'economia.
Il problema è complesso, riguarda quattrini e palanche, ma senza
una nuova complicità tra organizzatori e artisti questa scommessa
non avrà gambe per stare in piedi.
Un augurio
Avere fiducia nella messa in rete
delle intelligenze e delle artisticità.
Non lasciare che urgenze “politiche”
o di “rappresentanza” accorcino i tempi del confronto e banalizzino le
risposte.
Costruire luoghi dell'incontro
e del lavoro pratico in comune.
Prato, 24 maggio 2001
Oltre
le terre dell'infanzia
di
Carlo Bruni
Ormai qualche anno fa al Kismet
scegliemmo di intitolare la stagione dell'Opificio “Le Terre dell'Infanzia”.
Come di consueto il titolo tentò
di riassumere esigenze molteplici fra le quali quella di ridefinire il
nostro rapporto con i ragazzi. Avevamo una versa crisi d'identità
e avvertivamo fortemente il peso di un'etichetta che toglieva respiro a
quanto andavamo costruendo nel rapporto con gli adulti e soprattutto a
quanto andavamo demolendo.
Sul confine delle tipologie. Tuttavia,
curiosamente, nessuno di noi sembrava voler rinunciare a quel segnale di
riferimento pur così condizionante. Soltanto pronunciare la parola
“infanzia” nei molti colloqui con l'esterno sembrava ricondurci al ghetto
e allo stesso tempo la sfida non poteva che passare attraverso una “rinominazione”
di quel termine.
Molto di oggi parlano di una crisi
del settore e io stesso la riconosco non tanto nella qualità degli
spettacoli, che pure sembrano garantire una professionalità di base
diffusa, quanto nella tenuta di una professione intesa come vocazione specifica
che merita un qualche ascolto. Così, ben volentieri ho accettato
il pertinente invito di Marco Baliani a riflettere insieme sull'argomento
e, nel franco confronto che si è tenuto il 22 maggio a Parma, superati
gli ostacoli della retorica e della nostalgia dei bei tempi andati, ho
incontrato punti di vista estremamente stimolanti.
Uno di questi, condiviso sin nella
sua matrice, sottolineava in particolare tre cose.
1 - La contraddittorietà
di un sistema di produzione e di distribuzione che, nato come proposta
alternativa a quello tradizionale e fondato sull'esigenza di una relazione
sincera e profonda con il bambino, a partire da motivazioni prima ideologiche
e subito dopo poetiche e quasi analogiche, si era fondato sul concetto
più ampio di laboratorio (lo spettacolo era, in quella prospettiva,
anche quando approssimativa, di un processo). Un sistema produttivo e distributivo
che ora invece, in una mutazione orami evidente, sembra ridurre lo spettacolo
a bene di puro consumo, da divorare con la stessa superficialità
della televisione e con l'illusione di un dibattito più vicino alla
farcitura che al senso, messo in coda a sanare le coscienze degli attori
e degli insegnanti.
Su questo capitolo varrebbe la
pena aggiungere che poiché le sensazioni contano in assoluto, non
varrà la giustificazione di nessun esempio singolo a sanare la ferita:
è il tipico caso in cui per frenare gli impeti della platea si aggiunge
“salvo i presenti”.
2 - In assoluta connessione con
il primo punto, s'innesta l'interrogativo retorico: ma il teatro ragazzi
sa oggi qual è l'immaginario dei suoi principali interlocutori?
E conseguentemente, si pone il problema d'inseguirlo piuttosto che di marcare
sulla differenza o di cogliere una qualche affinità come terreno
d'incontro? C'è in chi rivolge il proprio teatro all'infanzia la
necessità di frequentare la propria infanzia, magari per vivere
meglio la propria età adulta? Ecco che emergono le espressioni “senza
luogo” e “senza continuità”.
E' vero, forse ha fatto più
danni al teatro ragazzi la riscoperta del racconto (comunemente attribuita
a Baliani, ma immediatamente degradata nel balianesimo) di quanti non ne
abbia fatti Buongiorno con i suoi bambini prodigio, ed è vero che
è difficile oggi rintracciare in un bambino l'esigenza di confrontarsi
con le memorie di un padre o di un nonno, preso com'è dalla potentissima
memoria del suo video gioco, ed è anche vero che l'attitudine a
saltare i passaggi, non solo nuovi bambini che può benissimo fare
a meno di un luogo di riferimento e certamente di tutti quei “luoghi comuni”
su cui avevamo fondato il nostro concetto d'infanzia.
E' l'occasione buona forse, allora,
per demolire la categoria dimettendoci magari dal ruolo di teatro per ragazzi
– dizione volutamente orribile – non per rinunciare alla nostra storia
e al rapporto privilegiato con loro, ma per ritrovare le proprie affinità
che ci legano indissolubilmente a quella infanzia intesa, piuttosto che
come età, come condizione, come attitudine alla scoperta, come assenza
della parola in quanto definizione (vi ricordate Pasolini: la verità
meglio non nominarla perché appena la nomini non c'è più),
come occasione di stupidità: di capacità di stupirsi.
3 - Oggi il nostro teatro ha raggiunto
la sua maturità (non come traguardo) e deve assumersi una respirabilità
rischiosissima e mortale: quella di darsi una scuola, o meglio una scholè,
perché la nostra scuola non potrà che essere sperimentale
nell'accezione propria del termine e con particolare riferimento a quello
spazio dell'ozio e dell'incontro gratuito su cui i greci avevano fondato
la loro cultura.
Insieme (non necessariamente tutti
insieme) con continuità dovremo riservare e mettere sul davanzale
le nostre briciole (come ci ricorda Letizia Quintavalla), senz'aspettarci
di cogliere l'atto in cui qualcun altro le mangerà. Con continuità
sottolineo, poiché sono state molte e proficue le esperienze che
hanno prodotto più o meno solide filiazioni, ma l'ufficialità
di una scuola implica anche una straordinaria consapevolezza da parte dei
maestri della sua paradossale inutilità. Fondare una scuola significa
disporsi all'essere traditi, radicalmente contestati, rinunciando definitivamente
ad essere allo stesso tempo passato e futuro, padri e figli, e accontentandosi
di quel breve interstizio di tempo presente che per qualcuno potrà
essere una bella “Agenzia di Viaggi” e per qualcun altro, più sfortunato
o semplicemente più somaro, soltanto un “Ufficio Oggetti Smarriti”.
Il
teatro per i ragazzi come narrazione e metafora
di
Nicola Viesti
Intento affascinante quello di affidarsi
alla poesia per una possibile rinascita, ma può essere ancora possibile
e , soprattutto, potrebbe bastare?
La crisi, ancora lontana da totalità
ed irreversibilità, del teatro per i ragazzi serpeggia sotterranea
– o quasi – spesso poco visibile, altre volte mostrando crepe che potrebbero
farsi profonde e passa per il naturale esaurirsi delle capacità
di una generazione che per trent’anni ha fatto e costruito molto. Ha creato
modalità ed approfondito studi, si è cucita addosso una professionalità
che forse ora è limite, ha sperimentato approcci e linguaggi, ha
inventato e difeso con successo un circuito inedito nella realtà
teatrale italiana architettato come rete tendente all’autosufficienza e
per quanto possibile aperto. Con lucidità ora però intuisce
una probabile fine – è da parecchio che a margine del festival “Segnali”
l’incontro dei gruppi lombardi termina con un “il teatro ragazzi morirà
con noi” che nasconde preoccupazioni ma anche autocompiacimenti – ma rifiuta
di discuterla e “negoziarla”. Le apprensioni sulle necessità artistiche
sono fondamentali, così come il rinverdire poetiche e tematiche,
ma in fondo penso che il vero punto centrale della questione sia l’avvenuta
maturità “blindata” dei protagonisti di una lunga avventura. E la
presenza, alla base, di alcune contraddizioni.
Una insita nella stessa struttura
datasi che, con il trascorrere del tempo ed il complicarsi delle relazioni,
avrebbe dovuto sentire come obbligatorio abbattere limiti e cancellare
definizioni prestabilite. Penso possa servire come spunto per riflessione
un’emblematica reazione alla scelta degli spettacoli finalisti alla scorsa
edizione dello Stregagatto, esperienza che ho vissuto in prima persona
come componente della giuria selezionatrice. Tutti noi della giuria avevamo
scelto e molto discusso secondo un – ovviamente nostro - rigoroso criterio
di qualità in cui non era estranea anche la contestualizzazione
degli spettacoli sia riguardo a chi li produceva sia riguardo al pubblico
verso cui si indirizzavano. La scelta è stata per certi versi e
da alcuni contestata con la motivazione che le preferenze – per un
ipotetico indirizzo culturale da noi espresso – erano state rivolte ad
un teatro di ricerca penalizzando non si capisce quale altra “specializzazione”.
Ora penso che tutto il teatro debba essere continua ricerca e specialmente
quello rivolto alle giovani generazioni – la cosa mi sembra persino ovvia
– e non comprendo il voler affermare differenze ed alterità
con un ancorarsi concettualmente ad una definizione di “generi”. La critica
rimaneva comunque interessante e sollecitava un dibattito che è
risultato purtroppo ufficialmente inesistente. In realtà tutto era
scaturito dalla presenza in gara di uno spettacolo “estraneo” e “pericoloso”
ad uno status consolidato per anomalia produttiva – chi lo aveva creato
era al di fuori del solito giro – e per audacia di messa in scena – inusitata
complessità assolutamente antieconomica per gli standard correnti.
Una proposta sentita come corpo estraneo da esorcizzare che poneva e pone
però effettivamente problemi importanti. Come l’insufficienza ormai
della rete creata, idonea solo a presentare spettacoli o progetti entro
determinati limiti, ciò che costituisce la stragrande maggioranza
di ciò che si crea, con impossibilità oggettive alla capacità
di pensare non solo “altre” scelte produttive ma anche diversi e più
temerari intenti artistici , senza dimenticare una inevitabile tendenza
al protezionismo.
L’inaridimento dovuto alla necessità
di una presenza costante e scadenzata sulle scene, che si fa forte e- nei
casi migliori – regge sulla professionalità acquisita, porta
spesso ad una insensibilità verso l’attenzione e la cura del particolare
pubblico a cui ci si rivolge. Ancora emblematica è ,al riguardo,
la constatazione che da alcuni anni gli spettacoli rivolti ai più
piccini siano sempre più rari mentre quelli per adolescenti sempre
più numerosi. Credo che la spiegazione sia molto semplice. Dopo
tanto dare ed elaborare ai protagonisti del teatro ragazzi non interessa
più essere – come splendidamente definiti da Marco Dallari – dei
buoni pedofili perché sono ormai lontani dal soggetto a cui dovrebbero
guardare anche per un desiderio, molto comprensibile e giusto, di voler
provare a misurarsi con altri percorsi dando vita ad ibridi di ambigua
connotazione che si fanno scudo di una ipotetica committenza da fascia
alta ma in realtà ondeggiano verso il teatro per adulti senza definire
una propria specificità. E qui subentra un altro nodo dolente: l’approssimativo
tentativo - o spesso la mancanza assoluta – della volontà di operare
un ricambio generazionale. Le note di Marco Baliani sono sacrosante -
ed in particolar modo quelle relative al passaggio della memoria, delle
esperienze e dei ricordi – ma questo ineludibile travaso dovrebbe riguardare
prima ancora che gli adulti interpreti di questo teatro ed il loro pubblico
bambino quelli stessi adulti ed una nuova generazione di interpreti. Il
passaggio ed il confronto dovrebbero esserci e vivificare dall’interno
per riuscire a modificare e rendere “nuovi” e proficui i rapporti esterni.
Solo così penso si potrebbe in pieno valorizzare ancora una “vecchia”
generazione e rinnovare il grande e difficile lavoro di una scena per l’infanzia.
Si ha, o almeno ho, la sensazione di un continuo utilizzo e ricorso ad
intelligenza e sapienza mentre sembrano deficitari i moti di cuore ed anima.
Bisognerebbe riappropriarsene prima ancora di lanciarsi alla conquista
di diversi e recenti linguaggi e tecnologie, peraltro indispensabili ma
inefficaci ad esprimere la completezza di una poetica o di una forte motivazione
del proprio operato artistico. Ecco perché penso che un’iniziativa
come quella dei cantieri del Teatro delle Briciole sia un’occasione preziosa
per riproporre una riflessione seria e complessa – e sicuramente non indolore
– assolutamente utile, direi quasi politicamente non procrastinabile in
questo particolare momento.
Nei Fratelli Karamazov, Dostoevskij
fa incontrare, nel fondo buio di un carcere, il Grande Inquisitore e il
Cristo. Per una volta – forse la prima e probabilmente l'ultima – il terribile
e paternalistico realismo del potere e lo slancio puro dell'utopia si parlano.
Oggi, quando tutto avviene sotto lo sguardo
indiscreto e inquinante dei mass media, queste due figure non possono certo
dialogare: se mai capitasse, sarebbe nello squallido teatrino di un talk
show.
Così l'unico format possibile
per questo incontro epocale è stata una gigantesca performance,
che si è svolta nei giorni scorsi a Genova. Per un week end (la
durata di un vertice in cui decidere il destino di 6 miliardi di esseri
umani), sotto gli occhi di una moltitudine di cineprese, macchine fotografiche,
registratori eccetera, centinaia di migliaia di attori hanno dato vita
a un gigantesco spettacolo, a beneficio della Platea dell'Umanità
(come recita con qualche ambizione l'insegna della Biennale Arte di quest'anno
a Venezia, decisamente spiazzata e marginalizzata da questa megaperformance
che ha occupato un'intera città e catturato l'attenzione dei media
del mondo intero).
Più che sperimentare nuove strade,
gli artisti presenti a Genova – forse intimiditi dall'attesa suscitata
dall'evento – come vecchi attori, o come inevitabili seguaci del post-modern
hanno preferito lavorare di citazioni e di accumulo.
Accumulo, perché il grande show televisivo
ha finito per assommare diverse tendenze artistiche e soprattutto intrecciare
i generi che di questi tempi vanno per la maggiore: va infatti preso atto
che la tv verità, con un Grande Fratello (o meglio, con migliaia
di Piccoli Fratelli) a riprendere ogni cosa, e la tv del dolore hanno decisamente
oscurato il talk show politico (che però si è apparentemente
ripreso nei giorni successivi, in sede di commento e rievocazione). Gli
stimoli a rielaborazioni successive non mancano: a breve, le immagini degli
scontri, così coreografiche, forniranno senz'altro ottimo materiale
per molti videoclip musicali (già me li vedo, Jovanotti, Liga e
Pelù che cantano un qualche loro coretto benefico, e le chitarrone
degli U2 con Bono che intona "Rimetti a loro i loro debiti" e i lacrimogeni
che annebbiano lo schermo…).
E citazioni perché, rinunciando di
fatto alla comunicazione verbale (ridotta per tutti a brevi frasi fatte
isolate e amplificate, sulla scia di certi lavori di Jenny Holzer), gli
artisti hanno preferito ispirarsi al recente repertorio delle arti visive
e della performance.
Per l'allestimento dello spazio – i chilometri
di impressionante barriera che hanno isolato la Zona Rossa – il modello
sono con ogni evidenza le installazioni-imballo di Christo: ma la sua opera
forse più ambiziosa in questa direzione, la grande tenda che ha
chiuso per alcuni giorni il canyon, ha avuto un impatto molto minore, sistemata
com'era in una zona praticamente deserta. Tuttavia non va dimenticato che
in uno dei suoi recenti interventi l'artista bulgaro ha impacchettato a
Berlino il Reichstag, in un intervento di forte carica simbolica. Il gesto
compiuto dai G8 a Genova rischia di oscurare questi precedenti: per la
quantità e qualità del materiale usato, per la lunghezza
della barriera, per la quantità di persone coinvolte e l'effetto
che ha avuto l'installazione sulle loro vite. Sappiamo che alcune interessanti
esperienze dell'arte contemporanea partono dalla riflessione sui profughi,
sul nomadismo, sul viaggio, sulla frontiera. A Genova abbiamo visto tranquille
pensionate superare a fatica queste barriere e i controlli poliziesco-doganali
che efficaci coreografie rendevano vissuti, solo per andare a comprare
il pane e il latte: microinterventi chiaramente figli di certa body art
degli anni Settanta, ma rivitalizzati dall'impatto con l'attualità
politica, decisamente efficaci per far vivere (e dunque comprendere nella
maniera più vera) la tragica situazione dei profughi e degli emigranti.
Lavorando sullo spazio urbano la troupe multinazionale
dei G8 (il supergruppo che ha organizzato l'evento è composto da
un americano, che è anche il regista, un inglese, un canadese, un
francese, un tedesco, un italiano, che a Genova si è assunto il
compito di scenografo apparecchiatore, un giapponese, e come guest star
un giovane russo, a incarnare le diverse tradizioni culturali e artistiche
del pianeta) hanno costruito una situazione davvero interessante e ricca
di implicazioni, giocata com'è sulle dicotomie interno-esterno,
pietra-metallo, pace-guerra, pulito-sporco, ricco-povero: il Muro di Genova,
con i suoi materiali primari, il richiamo a dicotomie elementari, con profonde
radici mitologiche, hanno portato alla luce il conflitto latente, hanno
reso palpabile l'ingiustizia che i media tendono a occultare, hanno evocato
lo scontro. Dobbiamo dunque ringraziarli per questo gesto, che ci ha reso
tutti più consapevoli della realtà in cui viviamo. Inutile
ripeterlo, ma questo è il primo compito politico dell'arte.
Invece sul piano della presenza il G8 ha
purtroppo deluso. Perché malgrado tutti i suoi sforzi non riesce
a emanciparsi dal suo modello, Gilbert & George: un classico, è
vero, ma ormai irrimediabilmente déja-vu. Quei loro abiti grigi
o blu, quel mettersi continuamente in posa davanti alle telecamere, quelle
ostentate e meccaniche strette di mano fanno parte di un repertorio che
ha fatto il suo tempo (oltretutto sembrava mancare quell'autoironia che
caratterizzava le apparizioni del duo britannico). I G8, invece di prendersi
così sul serio, possono fare di più e meglio. Forse la strada
l'ha indicata il piccoletto del gruppo, l'italiano Silvio Berlusconi, con
ogni evidenza ispirato dalla recente lettura del Riformatore del mondo
di Thomas Bernhard. Nel corso di una passeggiata-performance alcune
settimane prima dell'evento vero e proprio, in una sublime gag ha ordinato
di eliminare i panni stesi alle finestre (segni che fanno riferimento a
un privato per renderlo pubblico, nel solco di certa narrative art): va
notato che così facendo, l'artista Berlusconi si è anche
fatto critico, prendendo una posizione assai precisa sul lavoro di altri
artisti e di fatto censurandoli. Questo tocco bernhardiano si è
potuto cogliere in tutta la sua demistificante potenza quando – nella dichiarazione
seguita alla morte nel corso della performance di uno degli artisti – ha
definito «inconvenienti» le grandi tragedie collettive
della moderna umanità, come l'Aids e la povertà: un momento
di grande teatro. In quella scena, si è rivelata la grandezza dell'attore,
la sua capacità di incarnare certe irresistibili maschere alla Bernhard,
ossessive, grottesche e patetiche, feroci e ottuse, con le loro smodate
ambizioni inadeguate rispetto a una tragica incomprensione del mondo.
Per l'altra star dell'evento – il Cosiddetto
Black Block, un altro supergruppo internazionale acorso in Liguria – il
modello ricalcato in maniera pedissequa è la Fura dels Baus prima
maniera – prima cioè che il gruppo, esaurito lo slancio iniziale,
cercasse il sostegno di più articolate strutture drammaturgico-narrative.
Insomma, un ritorno all'epoca della pura energia distruttiva, del rottame
e dello sfascio a ogni costo. Come nei primi spettacoli del gruppo catalano,
la massa amorfa del pubblico (in questo caso i manifestanti del GSF) è
stato usato come vera e propria scenografia di corpi, sospinto qua e là
per lo spazio scenico, disperso e radunato dai perfomer-agitatori.
Il Cosiddetto (un'identità collettiva
e anonima che ricalca certi aspetti dell'esperienza di Luther Blisset)
non rilascia dichiarazioni e interviste ai critici. L'enigma sulla scelta
degli efficacissimi costumi neri è dunque destinato a restare irrisolto.
Quel nero è una citazione di Dolce & Gabbana dei primi anni
Novanta? Quei volti maschili coperti dal passamontagna ribaltano il femminile
chador e con esso la tradizionale e pacifica sottomissione femminile? Il
colore è una citazione-omaggio dell'abito dei sacerdoti che aderiscono
al GSF? O quegli anonimi caschi & passamontagna, quelle uniformi rappresentano
l'ennesima riflessione sulla crisi dell'identità? Forse tutte queste
cose e nessuna, perché – ormai lo sappiamo – al centro della pratica
artistica del Cosiddetto sono proprio l'ambiguità e la provocazione.
(Ma è certo che tra poco assisteremo a un revival di questo Dolce
& Gabbana primi anni Novanta.)
Il Cosiddetto e la Questura (un gruppo locale
di grande tradizione, con i suoi tradizionali costumi e i suoi simpatici
attrezzi, manganelli, lacrimogeni, caschi, scudi eccetera, che è
da sempre parte integrante di questi eventi - la vera anima della festa,
abilmente diretto nell'occasione da un timido ma efficacissimo Gianfranco
Fini) usano anche magistralmente la pratica dell'objet trouvée.
Gli uni e gli altri prediligono sassi e attrezzi che trovano nei cantieri,
bottiglie, spranghe di ferro: i primi preferiscono usarli in un contesto
dinamico, gli altri li usano per piccole mostre: dispongono gli oggetti
raccolti su tavoli e scrivanie (a volte, ma non a Genova, confezionandoli
in sacchetti di cellophan), poi chiamano a raccolta critici e fotografi
e descrivono minuziosamente le opere: circostanze del rinvenimento, possibili
usi, significato; a volte, dopo un minuzioso lavoro sull'indizio e sulla
traccia, li inseriscono in narrazioni mitico-romanzesche, di cui questi
oggetti sono tracce e indizi.
Pur lavorando con gli stessi materiali, le
due scuole fanno tuttavia un uso molto diverso dell'objet trouvée.
Questo riflette con evidenza due opposte concezioni della vita e dell'arte.
Da un lato si privilegia il gesto, dall'altro l'opera, da un lato si tende
a fondere arte e vita (e morte), dall'altro si costruiscono cornici e gabbie,
isolando frammenti di realtà come opere d'arte.
(continua nel prossimo "ateatro")
Appuntamento al prossimo numero.
Se volete scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
copyright Oliviero Ponte di Pino 2001
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