Il nuovo decreto del Ministero per i Beni e le Attività culturali “Criteri e modalità di erogazione di contributi in favore delle attività teatrali, in corrispondenza degli stanziamenti del Fondo unico per lo spettacolo, di cui alla legge 30 aprile 1985, n. 163” è stato finalmente pubblicato sulla GU n. 9 del 11-1-2008, e così pure quello relativo alla danza.
Tutto il teatro italiano è immerso nella modulistica, in relazioni e schede che solo qualche funzionario leggerà per estrapolare i dati quantitativi. Di certo avrà il tempo solo di scorrerle (forse, e certo non di approfondire) la “Comissione consultiva” prosa – quella nuova, di cui si conoscono i componenti recentemente nominati dal Ministero: Giammusso, Pedullà, Pischedda e new entry in area ministeriale, Maddalena Fallucchi (non si sa ancora il nome del componente che compete alle Regioni). E non per cattiva volontà: quand’anche fossero i migliori “commissari” possibili (rimandiamo eventuali valutazioni, come già per il passato, al momento in cui la composizione sarà completa), non sarebbe umanamente pensabile: consideriamo anche solo al numero delle istanze e la dislocazione territoriale eccetera.
A controbilanciare la totale, notoria e provata inadeguatezza delle Commissioni, intervengno due elementi: un potere ancora maggiore che in passato – in pratica assoluto – del Direttore generale e una più chiara funzione riconosciuta alle Regioni (in attesa della famosa legge che anche questa volta non si farà), che oltre a stilare un elenco delle attività sovvenzionate sul territorio si esprimono preventivamente sui singoli soggetti.
Questi due aspetti, l’accresciuto potere del Direttore generale e una più precisa funzione delle Regioni, sono fra le principali novità del decreto e destano non poche preoccupazioni: il direttore generale non può essere Superman (ma forse qualcuno dovrebbe dirglielo), deve anche occuparsi di qualche Fondazione Lirica commissariata e non so se sarà facile per tutte le Regioni attrezzarsi in modo davvero efficace e corretto, nei tempi richiesti.
I compiti di Direttore generale, Commissione e Regioni
Art. 2/5. Il direttore generale per lo spettacolo dal vivo, di seguito definito “direttore generale”, con proprio decreto, tenuto conto di quanto previsto dalle leggi finanziaria e di bilancio, sentita la Commissione ed acquisito il parere della Conferenza delle regioni, dell'Unione delle province italiane e dell'Associazione nazionale dei comuni d'Italia, che si esprimono entro trenta giorni dalla richiesta da parte del direttore medesimo, trascorsi i quali il decreto puo' comunque essere adottato, stabilisce, in armonia con il totale dei contributi assegnati nell'anno precedente e con l'entita' delle domande complessivamente presentate, la quota delle risorse da assegnare a ciascuno dei settori teatrali, dei soggetti e dei progetti di cui ai seguenti articoli.
Art.3/4. Il direttore generale stabilisce annualmente le percentuali ed i massimali economici delle voci di costo di cui al comma 3, tenuto conto delle risorse disponibili e dell'entita' delle domande complessivamente presentate, sentito il parere della competente sezione della Consulta per lo spettacolo di cui all'art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 14 maggio 2007, n. 89.
Art. 4/ Presentazione della domanda, requisiti di ammissibilita' e determinazione del contributo
2. Nessun soggetto puo' essere ammesso a contributo se non ha svolto attivita' per almeno tre anni nel settore teatrale. La Commissione individua prioritariamente le risorse da destinare alle nuove istanze.
3. Per i soggetti gia' sovvenzionati negli anni precedenti, la domanda di contributo puo' essere sottoposta al parere della Commissione, a condizione che sia stato presentato il rendiconto artistico e finanziario relativo al penultimo anno antecedente quello cui si riferisce la domanda.
6. L'entita' del contributo e' determinata con provvedimento del direttore generale, sentita la Commissione.
8. Le regioni trasmettono annualmente alla direzione generale gli elenchi dei soggetti sostenuti finanziariamente, anche dagli enti locali, per le attivita' di cui al presente decreto, indicando la tipologia dell'attivita' medesima e l'importo del contributo.
Art. 5. Valutazione qualitativa
1. La valutazione qualitativa e' determinata dalla Commissione.
2. La Commissione tiene conto:
a) della qualita' artistica dei progetti;
b) del parere espresso dalle regioni sul ruolo, la coerenza e l'efficacia dei progetti medesimi con riferimento alle linee di programmazione regionale in materia.
4. Il parere di cui al comma 2, lettera b) viene espresso dalla regione in cui si svolge l'attivita' prevalente del soggetto richiedente. In caso di mancata indicazione o di indicazione plurima, in sede di presentazione della domanda, il parere viene espresso dalla regione in cui il richiedente ha la propria sede legale. Il predetto parere deve pervenire alla direzione generale in formato elettronico entro il termine perentorio del 31 gennaio dell'anno cui si riferisce il contributo.
Art. 7. Decadenza dal contributo
1. I soggetti beneficiari del contributo ai sensi del presente decreto sono tenuti a presentare, entro il 31 dicembre dell'anno successivo a quello di assegnazione del contributo medesimo, la documentazione consuntiva di cui all'art. 6, comma 3. Qualora tale documentazione non sia presentata entro il citato termine, ovvero contenga elementi non veritieri, e' disposta con provvedimento del direttore generale la decadenza dal contributo, con recupero delle somme gia' eventualmente versate.
Per il resto cosa c’è di nuovo? Non troppo, ma si può rilevare qualche assestamento significativo, qualche passaggio interessante, anche qualche notazione involontariamente umoristica.
Andiamo con ordine.
Discrezionalità garantita
Art. 5/ 8. Una valutazione qualitativa favorevole conferma, aumenta fino a tre volte ovvero diminuisce l'ammontare della base quantitativa, fermo restando il limite del pareggio tra entrate e uscite del preventivo.
Con un piccolo ritocco, la discrezionalità resta quasi assoluta. Ateatro ha commentato tante altre volte, non c’è niente di nuovo da dire. L’”aumento fino a 3 volte”, annulla ogni parvenza di obiettività del dato quantitativo, l’impossibilità di valutare i progetti ridicolizza la valutazione qualitativa. Quanto al pareggio dei bilanci, non mi sono informata se si siano effettuati in questi anni controlli: certo è che solo in Italia TUTTO il teatro è in perdita.
Buone intenzioni e interferenze progettuali e sul mercato
Si rinnovano, con qualche piccola modifica, alcune prescrizioni su cui vale la pena di riflettere per quello che rappresentano in rapporto alla libertà progettuale e gestionale e per le possibili ricadute sul mercato. Per spiegarmi meglio ne ricordo una “storica” e abbastanza dibattuta (Art. 3.1), quella che vincola all’ “l’impiego per ogni spettacolo di un minimo di sei elementi tra artistici e tecnici. Per il settore del teatro per l'infanzia e la gioventu', il numero minimo degli elementi e' ridotto a quattro”: è la famosa norma che obbliga i monologhi a girare con 5 tecnici (quindi ad essere piccoli colossal, con alti costi di produzione e gestione). Compete al Ministero arginare l’eventuale “eccesso” di questa “forma”? e ha mai ragionato (il Ministero), sul fatto che i monologhi possono a volte compensare spettacoli più costosi ed essere una buona scelta economica (oltre che un’esigenza artistica)? La norma che detta le soglie quantitative e l’esclusione che il contributo “ecceda il pareggio di bilancio” non poteva bastare? (Per fortuna le norme si possono aggirare).
Sulla stessa linea – buone intenzioni con effetti potenzialmente dannosi – ce ne sono parecchie altre, con qualche novità.
Quando il Ministero suggerisce i programmi e “regola” il mercato
Art. 2. 2. (...) Ai sensi del presente decreto, gli spettacoli di commedia musicale sono riconosciuti a condizione che il testo e le musiche siano originali e di autori italiani contemporanei. Sono altresi' considerate le recite per le quali sia corrisposto un compenso a percentuale sugli incassi e quelle per le quali sia corrisposto un compenso fisso massimo di dodicimila euro per le attivita' di produzione e di ospitalita' e di novemila euro per l'attivita' degli organismi di distribuzione, promozione e formazione del pubblico.
Art. 2. 9. Almeno la meta' degli spettacoli di nuova produzione devono essere programmati nell'anno per un minimo di venti giornate recitative. Per il teatro di innovazione, le giornate recitative sono ridotte a quindici.
Sono articoli in cui si può cogliere qualche buona intenzione (e motivazione) originaria, ma anche l’incapacità di interpretare il mondo reale del teatro, una certa tendenza vessatoria, una dose di ingenuità e soprattutto la distanza le finalità desiderate e i probabili effetti. Seguiamo gli articoli del riquadro precedente:
- se qualcuno scovasse una commedia musicale francese strepitosa? (bisognosa e meritevole di contributi), chiederà un contributo in Francia? (e cosa ne pensa la UE di questo protezionismo?);
- non ci si è chiesti se per caso indicare i massimali dei cachet non spinga quelli medi in alto (si è fatta un’indagine anche empirica sull’effetto che questa norma, già esistente, ora precisata nelle cifre indicate, ha determinato negli scorsi anni?);
- si è proprio sicuri che prescrivere il numero di rappresentazioni minime per spettacolo nell’anno preservi dalla sovrapproduzione e garantisca un miglior sfruttamento degli allestimenti? E se uno spettacolo fosse un vero flop e lo si dovesse trascinare avanti per forza? E se avesse una rilevanza solo locale? E se una compagnia volesse produrre molto in un anno per replicare nel successivo? etc etc. Lo stesso ragionamento si può fare per quasi tutte le prescrizioni quantitative, sempre discutibili, e -.mi sembra- raramente valutate per gli effetti che possono determinare.
Probabilmente l’impossibilità o incapacità di valutare i progetti in quanto tali abbia spinto e spinga a individuare parametri ambivalenti, a dettare prescrizioni spesso controproducenti o che – nella migliore delle ipotesi - si rivelano armi a doppio taglio. Questo succede ormai da decenni, in una perseveranza diabolica da cui sembra impossibile uscire.
Stabilità più stabile
Le modifiche più rilevanti in termini di parametri quantitativi, riguarda l’area della stabilità, cui si chiede una maggiore stabilità, appunto. Scelta corretta, probabilmente, se inquadrata in un ripensamento e forse in un rilancio del settore, soprattutto pubblico. Si ritiene, penso, che gli stabili, operando più in sede “promuovano” la crescita del pubblico e liberino aree di mercato (insomma girino di meno). Peccato che, al di fuori di ogni logica di riforma, il rischio sia un allungamento forzato delle teniture e la chiusura degli spazi che questi teatri riservano all’ospitalità.
Tutti i numeri degli stabili
Art. 8. 2. L'attivita' teatrale stabile e' connotata dal prevalente rapporto con il territorio entro il quale e' ubicato ed opera il soggetto che la svolge, dalla stabilita' del nucleo artistico-tecnico-organizzativo, nonche' da una progettualita' con particolari finalita' artistiche, culturali e sociali, ed e' caratterizzata da:
h) rappresentazione in sedi direttamente gestite di almeno:
1) il 30 per cento delle recite di produzione per i teatri operanti in citta' con non oltre 250.000 abitanti;
2) il 40 per cento delle recite di produzione per i teatri operanti in citta' con piu' di 250.000 abitanti e fino a 700.000 abitanti;
3) il 50 per cento delle recite di produzione per i teatri operanti in citta' con piu' di 700.000 abitanti;
i) rappresentazione delle recite di produzione nel territorio della regione di appartenenza per almeno il 10 per cento, in aggiunta al requisito di cui alla lettera h);
Le prescrizioni toccano picchi di involontaria comicità per il settore pubblico, con le due prescrizioni che seguono: che – volendo incentivare gli spazi dedicati a drammaturgia italiana e ricerca - riescono nel paradosso di prescrivere meno di quanto già si fa e in modo eccezionalmente confuso..
Stabili autori italiani e ricerca
Art. 9. Teatri stabili ad iniziativa pubblica (requisito obbligatorio)
1. g) committenza ed allestimento ogni due anni di almeno un'opera di autore italiano vivente;
h) allestimento od ospitalita' di almeno uno spettacolo d'innovazione o ricerca.
Così gli autori italiani viventi che hanno un buon testo nel cassetto (magari anche premiato o pubblicato), dovranno cercare di farselo commissionare a posteriori. Mentre per quanto riguarda la differenza fra innovazione e ricerca, speriamo in qualche decreto chiarificatore.
Sul fronte della stabilità privata, forse per non lasciare solo il Sistina con i suoi 750.000 E. di contributo, c’è una novità significativa .
Non solo Sistina
Art. 10, 2. Possono essere, altresi', riconosciuti teatri stabili ad iniziativa privata organismi che, oltre a possedere i requisiti di cui al comma 1 del presente articolo, abbiano la disponibilita' esclusiva di una sala teatrale di almeno milletrecento posti e programmino commedie musicali di autori italiani contemporanei per almeno il settanta per cento dell'attivita' effettuata.
Si accettano nominations: tenete conto che il decreto si proietta oltre il 2008.
Attività di produzione, in Italia e all’estero
Non ci sono grandi novità per le compagnie. Non è nuovo ma voglio ricordare che per i gruppi più consolidati esiste la possibilità, dell’anno sabbatico (Art. 12.5. : Le imprese di produzione teatrale possono, al termine di tre anni consecutivi di attivita' destinataria di contributo, effettuare la domanda, solo per l'anno appena successivo, il dieci per cento dei minimi recitativi e lavorativi previsti dal presente decreto, sostituendo la restante parte con attivita' di laboratorio, scientifica, seminariale e di studio), che potrebbe decongestionare la pressione sul Ministero e sul mercato e dare atto della necessità di effettuare pause di riflessione.
Una novità tecnica importante consiste nell’aver riportato nel decreto la normativa relativa alle tournée all’estero (abrogando la circolare 4 dell’11/8/89), che però nella sostanza non cambia,.
Attività all’estero
Art. 5 7. Per l'attivita' all'estero, la Commissione, accertata la validita' artistica dell'iniziativa e la sua idoneita' a rappresentare la cultura italiana nel mondo, tiene altresi' conto:
a) dell'apporto finanziario del Paese ospitante;
b) della localita' e della sede presso cui si svolge la manifestazione e della sua rilevanza nella vita culturale e artistica del Paese ospitante;
c) della previsione di opere e lavori di autore italiano.
L'entita' del contributo non puo' superare le spese di viaggio e trasporto esposte nel preventivo, fermo restando il limite del pareggio tra entrate e uscite
Art. 21 1. Puo' essere concesso un contributo per le attivita' teatrali svolgersi all'estero, a condizione che queste consistano nella partecipazione a festival, rassegne, programmazioni di istituzioni o teatri stranieri, dimostrata da copie di contratti o da inviti del soggetto organizzatore, attestanti l'interesse e la partecipazione economica alla realizzazione dell'attivita' da parte del Paese ospitante.
Consolidare la distribuzione (nell’ambito del settore)
Per i Circuiti Teatrali regionali si registra qualche nuova prescrizione, collegata a chiari obiettivi di consolidamento, e si ribadisce con chiarezza l’esclusione dell’attività di produzione e la limitazione a un organismo per regione. Resta vaga la funzione di promozione e formazione del pubblico del titolo (che vede interpretazioni estremamente disparate). Ma la prescrizione più gravida di conseguenze sembra essere quella che limita l’attività per il 90% alle ospitalità nazionali e “al settore del decreto” (questo nonostante le invocazioni alla multidisciplinarità inutilmente disseminate nello steso decreto, oltre che in documenti, dichiarazioni, bozze di legge).
Rilevante la sparizione dall’articolo relativo all’esercizio teatrale dei Teatri Comunali, che potranno quindi essere sostenuti solo dagli enti territoriali. Piccola prescrizione per i festival: dovranno presentare almeno 6 spettacoli. Mi chiedo se ci siano stati per il passato festival finanziati dal Ministero che ne programmassero di meno – non credo - o se piuttosto l’indicazione di una soglia quantitativa così bassa non consenta di aprire le porte: a un potenziale finanziamento a pioggia, (si contano a centinaia in Italia le rassegne che oggi corrispondono ai requisiti indicati).
Art. 14. Organismi di distribuzione, promozione e formazione del pubblico
1. Puo' essere concesso un contributo, non cumulabile con le altre forme di contribuzione previste dal presente decreto, agli organismi, beneficiari di una partecipazione finanziaria della regione dove hanno sede, che svolgono attivita' di distribuzione, promozione e formazione del pubblico nell'ambito del territorio della predetta regione e che non producano, coproducano o allestiscano spettacoli direttamente o indirettamente. Gli organismi possono svolgere l'attivita', in aggiunta a quella effettuata nella regione dove hanno sede, anche in una confinante che sia priva di un analogo organismo.
Puo' essere riconosciuto un solo organismo per regione finanziato ai sensi del presente articolo.
2. L'ammissione al contributo e' subordinata ai seguenti requisiti:
a) programmazione di almeno centocinquanta giornate recitative effettuate da organismi, per almeno il novanta per cento di nazionalita' italiana rispondenti a chiari requisiti di professionalita' e di qualita' artistica, operanti nei settori di cui al presente decreto. Le giornate recitative devono essere articolate su almeno dieci piazze, distribuite in modo da garantire la presenza in ogni provincia, ed effettuate in idonee sale teatrali, ovvero in ambiti diversi muniti delle prescritte autorizzazioni;
b) stabile ed autonoma struttura organizzativa;
f) disponibilita' di entrate finanziarie da parte di soggetti diversi dallo Stato, ad esclusione degli incassi, non inferiori al trenta per cento dei costi totali sostenuti;
g) avvenuto pagamento dei compensi agli organismi ospitati nell'anno precedente, che sottoscrivono una apposita dichiarazione liberatoria ovvero idonea documentazione attestante l'avvenuto pagamento dei compensi.
Art. 15.Esercizio teatrale
1. b) programmazione di almeno centotrenta giornate recitative annuali integralmente riservate alle attivita' di cui al presente decreto per iniziative ad attivita' continuativa;
c) programmazione di almeno ottanta giornate recitative annuali integralmente riservate alle attivita' di cui al presente decreto per iniziative ad attivita' stagionale.
Art. 17.Rassegne e festival
2. d) programmazione di almeno sei spettacoli, sia di ospitalita' che in coproduzione, di soggetti italiani o di qualificati soggetti stranieri, dei quali almeno uno presentato in prima nazionale;
Con riferimento alla penalizzazione della danza che deriverebbe da queste norme (ateatro ha ospitato l’appello del settore), il Ministero ha diffuso la seguente precisazione:
“L’eliminazione delle compagnie di danza nell’ambito dell’ospitalità teatrale è del tutto ininfluente, in quanto l’emanando decreto riconosce, da un lato, ai teatri una maggiore libertà di azione nella definizione dei progetti artistici e, dall’altro, favorisce un ricambio generazionale nel settore delle imprese teatrali.”
Vero, falso, chi ha ragione? contiamo su qualche commento che ci consenta di chiarire e approfondire questo argomento.
Varie ed eventuali (da non trascurare)
Per l’ Ente teatrale italiano va rilevata una precisazione (art. 18.3):
All'ETI possono essere, altresi', concessi contributi finalizzati a particolari progetti di attivita', anche individuati dall'Amministrazione, volti a favorire iniziative, con particolare riguardo a quelle di giovani compresi tra i diciotto e i trentacinque anni di eta'...”
cui si agiunge una novità non di poco conto: la facoltà di stipulare contratti anche per attività musicali (art. 4).
Potenzialmente significativo – anche se davvero riduttivo nelle indicazioni operative: seminari, convegni, premi - il nuovo ruolo promozionale della SIAE. Per i progetti speciali da segnalare l’indicazione che possono essere disposti direttamente dall’Amministrazione e, rispetto al passato sembra esclusa l’attività produttiva e formativa, sostituita da divulgazione, eventi, celebrazioni: in linea con i tempi.
Siae e progetti speciali
Art. 19. 3. La Societa' italiana autori drammatici puo' ricevere un contributo per la promozione della drammaturgia italiana contemporanea, su presentazione di un progetto che puo' articolarsi in seminari, convegni, premi ed attivita' editoriali.
Art. 20.Progetti speciali
1. Puo' essere concesso un contributo, non cumulabile con altre forme di contribuzione previste dal presente decreto, ad iniziative, anche disposte direttamente dall'Amministrazione, da attuarsi esclusivamente nell'anno cui si riferisce la richiesta, di valorizzazione e promozione articolate in progetto organico che abbiano finalita' di sperimentare forme originali di divulgazione del teatro, nonche' iniziative rivolte a particolari celebrazioni o eventi.
Si segnala infine b>l’assenza delle “residenze” come modalità/forma di attività, ma anche la seguente precisazione divulgata dal Ministero:
“Le Residenze Multidisciplinari, pur non contemplate come autonomo titolo di finanziamento, possono essere considerate in sede di valutazione qualitativa, in quanto tra gli obiettivi che il Ministero intende perseguire rientra “il ricambio generazionale anche attraverso le residenze” (art. 2 comma 3 Lettera d)”
Per concludere
Il decreto è uscito a gennaio. Ma sarebbe buona norma non cabiare le regole del gioco a partita in corso (anche se per la verità per il passato era già successo), quindi molte delle norme contenute in questo decreto (le prescrizioni quantitative), non scattano per il 2008, ma dal 2009.
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“Solo su un’isoletta potremmo sperare di fare, lentamente, qualcosa di necessario per il teatro, per plasmare la coscienza teatrale”. L’amara constatazione di Anatolij Vassiliev risuona in una sala gremita di giovani attori e addetti ai lavori in riverente silenzio, si sdoppia nelle voci delle interpreti che in simultanea traducono in inglese e in italiano, ritorna tra le rughe del maestro russo dal volto di jurodivij, uno di quei “santi folli” cari a Tarkowski e a Grotowski. Sembra una risposta alla provocazione lanciata da Jurij Alschitz pochi minuti prima: chiudere tutte le scuole di teatro, smetterla di alimentare illusioni ed errori, e provare a costruirne una sola, basata sul confronto e sulla trasmissione di tecniche diverse per affrontare le questioni che il fare teatro pone a tutti, ovunque. Ma l’immagine evocata da Vassiliev sembra anche suggellare l’itinerario di questa quarta edizione di Methodika, il Festival internazionale di metodi di training teatrale, svoltasi proprio in un’isola – la Giudecca a Venezia – e molto attenta agli aspetti dell’etica dell’attore e della responsabilità dei processi pedagogici.
Jurij Alschitz.
Il nuovo appuntamento di questa specie di scuola itinerante che si propone, oltre che di diffondere conoscenze tra i professionisti del settore, anche di aprire discussioni nelle realtà di insegnamento e nel teatro stesso, è stato ideato dall’European Association for Theatre Culture (che raccoglie una serie di centri teatrali internazionali a Berlino, Stoccolma, Oslo, Milano) e dall’Akt-Zent di Berlino, prodotto dalla Fondazione di Venezia con il patrocinio dell’International Theatre Institut (UNESCO).
Sette giorni (dal 5 all’11 novembre scorso) di workshop intensivi, incontri, spettacoli, dimostrazioni di lavoro, con allievi provenienti da sedici paesi e divisi in quattro gruppi paralleli affidati ad altrettanti maestri internazionalmente riconosciuti, quali Maria Horne, Adolf Shapiro, Rimas Tuminas e César Brie.
Quattro modi molto diversi di lavorare con gli attori, di confrontarsi con un testo, di costruire la scena, anche se, almeno per i primi tre, la matrice stanislavskiana è dichiarata e riconoscibile, come per lo stesso direttore Jurij Alschitz, proviene da un percorso che, attraverso Vassiliev e Malkovski, risale direttamente al fondatore del Teatro d’Arte di Mosca.
Ma Methodika non intende trasmettere un metodo, quanto piuttosto favorire un atteggiamento di ricerca e di apertura al teatro come esperienza, e insieme contribuire alla ricostruzione di un lessico e di una tradizione da condividere e da salvaguardare come prezioso giacimento di quelle conoscenze e competenze che per secoli hanno fatto vivere un’arte oggi profondamente in crisi e a rischio di scomparsa o di definitiva omologazione commerciale.
Per questo Alschitz non ha mai invitato due volte lo stesso maestro. Nella prima edizione, che si svolse a Milano nel 1999 sul tema del rapporto tra la personalità dell’attore e la dimensione dell’ensemble, c’erano Frantisek Veres, Felix Müller, Virgilio Sieni e Oleg Koudriachov. Nelle due sessioni svoltesi a Stoccolma fu la volta di AnneLise Gabold, Gregory Hlady, Gabriele Vacis e di Vassiliev (2001, “Energia e teatro”) e poi di Vladimir Klimenko, Claudio de Maglio, Abel Solares, Thanos Vovolis e Giorgos Zamboulakis (2003, “Il volto e la maschera dell’attore”).
Adolf Shapiro.
Nelle giornate veneziane allievi e maestri, artisti e intellettuali si sono invece confrontati sul tema del centauro, esplorando caratteri e tracce della “centauristica teatrale”. Un tema che, come ha sottolineato Adolf Shapiro nell’incontro inaugurale, ci riporta alle questioni fondamentali del teatro, delle sue possibilità, della sua stessa natura: “Porsi domande e cercare delle risposte è ciò che sostiene il nostro lavoro. Il teatro è una cosa strana: gli dedichi tutta la vita e insieme ti chiedi: ‘Di cosa mi sto occupando?’”
Al lavoro con i maestri di Methodika
Accoppiati e incrociati in modo da consentire ai partecipanti di assistere anche ai corsi cui non erano iscritti, i laboratori sono stati condotti dai singoli docenti a partire da un’indicazione testuale più o meno precisa: la Horne ha lavorato su Arthur Miller e sulla relazione tra il metodo Strasberg e le moderne neuroscienze, Shapiro su Così è (se vi pare) di Pirandello, Tuminas sul Gabbiano di Cechov, Brie sull’Odissea. Sono, evidentemente, autori con i quali i registi invitati si sono già misurati.
Il Pirandello letto attraverso Stanislavskij di Shapiro risuona nelle diverse lingue utilizzate dagli attori, che il maestro incalza con richieste di concentrazione (“Tenete questo sentimento quando entrate nel ruolo”), di precisione (“Per chi lo state facendo?”), con esercizi di analisi delle relazioni tra i personaggi. Parla del drammaturgo siciliano come di una vecchia conoscenza, del suo teatro come di un paradosso antirealistico che va analizzato a partire dalla fine. Invita ad applicare la lezione di Stanislavskij: portare in primo piano gli elementi secondari e viceversa. Chiede di cercare in scena il nervo vivo, come il medico che per tentativi e domande individua il punto dolente. Il teatro vivo, spiega, comincia nel momento in cui metto il mio partner in scena nella condizione di dover decidere. Cita ancora Stanislavskij: se alla fine dello spettacolo, dietro le quinte, ti ricordi di come ha “risposto” il tuo partner, allora hai recitato bene.
Rimas Tuminas.
Tuminas offre una splendida lezione di “costruzione” della dilatazione cechoviana, ricavando dal capolavoro dello scrittore russo una mezz’ora di montato già definito negli intenti registici. Gli attori sono posti in una dimensione di partenza che fa il vuoto di riferimenti e sospende il tempo. Vengono invitati a guardare la casa, il giardino, i personaggi come qualcosa di lontano e morto. Su questa frattura – che da una parte rinvia a un Gabbiano letto come un addio al Romanticismo, dall’altro sembra richiamare l’esperienza autobiografica del regista nella Lituania post-sovietica – Tuminas interviene con un’opera di ricomposizione che non sana il conflitto (per lui alla base del teatro e della drammaturgia), ma lo piega alla “forza tenera del teatro”. Agli attori chiede perciò di ricominciare, per esempio proponendo loro di rimettere in piedi quella casa abbandonata, di ridarle vita: torneranno le persone che vi abitavano? Come vivevano? Forse le loro stanze avevano le tende ricamate, il verde vi entrava dal giardino. Com’è oggi quella casa?
Se gli esiti del laboratorio di Maria Horne sono apparsi piuttosto deboli – ma certo i risultati di un workshop non sono valutabili solo sulla base di una dimostrazione di lavoro – il corso condotto da César Brie ha suscitato entusiasmi negli allievi e nello stesso insegnante. Il fondatore del Teatro de los Andes, che dopo l’esperienza nel 2000 dell’Iliade sta allestendo in Bolivia un’Odissea (dovremmo vederla in Europa già alla fine di quest’anno), ha chiesto agli allievi di produrre immagini a partire dal testo omerico per poi lavorare sulle sequenze selezionate e passate, l’ultimo giorno, attraverso la fase del montaggio. Con tutte le sorprese e i limiti imposti dal tempo limitato, Brie ha mostrato le potenzialità di una tecnica compositiva che muove dalle risposte degli attori e ne rispetta la centralità nello sviluppo creativo, anche a costo di un procedere più lento e incerto. Ma, come aveva detto il regista argentino iniziando il laboratorio, “sperimentare è amare l’errore. Quando facciamo ricerca facciamo errori: in questi cinque giorni di lavoro cercheremo qualcosa, ma non è detto che la troveremo”.
Per una centauristica teatrale
Un aspetto interessante di Methodica è l’apertura interdisciplinare, la ricerca di dialogo con le altre arti, la poesia, le scienze. Tra gli ospiti delle serate alla Giudecca vanno ricordati Michele Abbondanza e Antonella Bertoni (in scena con l’assolo Try); il duo jazz di Roberta Rigotto e Enrico Merlin; Vasil’ev e alcuni direttori di scuole e organismi internazionali che sono intervenuti sulle prospettive della pedagogia teatrale; Mariangela Gualtieri, Cesare Ronconi e Francesco Bonami che, insieme a chi scrive, hanno affrontato più specificamente il tema dell’attore come centauro.
Centauristica, come ha spiegato Alschitz, “è una parola che nemmeno esiste nel vocabolario. Il centauro è il volto del mondo contemporaneo: la nostra vita è già una vita da centauri, in cui si uniscono diverse nazionalità, diverse lingue, si mischiano la cultura alta e quella bassa. Il teatro deve essere il luogo in cui viene unito ciò che non può altrove essere unito. È nel teatro, dove si combinano la realtà e l’irrealtà, che vivono i centauri: e sono queste nuove creazioni, nate dall’unione di reale e irreale, che ci parlano”. L’altra vita, che il teatro non “rappresenta” ma crea, ha bisogno di una nuova lingua e gli educatori devono aiutare una nuova generazione di attori a scoprire la propria natura polimorfa. Il performer come ponte tra mondi differenti, corpo meticcio, animale e divino, dionisiaco e apollineo. Un centauro che, secondo Vasil’ev, si muove in una terra di mezzo, nella zona d’incontro fra il teatro narrativo e il teatro non narrativo, tra due istanze registiche e due fonti di energia, all’incrocio tra la “linea verticale” e quella “orizzontale”.
L’attore è da sempre, ontologicamente, un centauro, nello stesso tempo persona e personaggio, maschera e volto, un ibrido di tecnica e di passione. Deve fingere la verità ed essere vero nella finzione, dev’essere capito ma anche creduto. Il “sii spontaneo” che fa scattare la trappola psicologica del doppio legame, e che blocca e inibisce i comuni mortali, è invece il punto di partenza dell’attore, il suo kantiano “dover essere” quotidiano. L’attore esplora e governa il doppio e la doppiezza. È centauro o non è.
La questione è stata messa a fuoco a partire dal Settecento anche nei termini del “paradosso dell’attore”, che da Diderot a Grotowski alimenta un dibattito centrale nella prassi e nella teoresi teatrali. Deve l’attore provare veramente le passioni che interpreta in scena? E come spiegare tale trasporto emotivo in rapporto ai trucchi, alle tecniche, all’esperienza, al mestiere? Si deve costruire il personaggio dall’interno, lavorando sui moti spontanei dell’anima dell’attore, come sostenevano Luigi Riccoboni e più tardi la tradizione grandattorale, o al contrario dall’esterno, intervenendo sulla meccanica esteriore di un personaggio per provocare uno stato d’animo corrispondente, come vorranno Diderot, Lessing e tanta ricerca teatrale novecentesca? Temi che, lungi dall’essere esauriti, trovano oggi sviluppi inattesi nell’avanzare dell’ibridazione tecnologica, della protesi multimediale, nel grande tema della marionetta e in quello della differenza animale, nei teatri delle diversità.
Centauro è il teatro stesso in ogni suo elemento. In quanto atto biologico e spirituale insieme. In quanto interfaccia tra attore e spettatore, performer e testimone. In quanto spazio nel quale tutto è come nella realtà, solo un po’ “ingrandito” (come doveva ammettere persino Riccoboni, paladino del “teatro naturale”), proprio come i centauri che per gli antichi possedevano tutti i pregi e tutti i difetti del genere umano, ma estremizzati.
César Brie.
Centauro è il teatro nel suo stare, oggi come nei secoli passati, ai margini della società, con un piede dentro, spesso in modo scandaloso, e un altro fuori, in un esilio volontario o coatto. Il teatro insieme divertimento e peccato, cultura e depravazione, proprio come gli eretici che nel Medioevo erano considerati metà cristiani e metà pagani e perciò raffigurati anch’essi in forma di centauro.
Centauro è il teatro nella sua polarità di realismo e simbolismo, ben incarnate dallo stesso Stanislavskij, nel quale convivevano due anime eternamente in dissidio, secondo il celebre ritratto di Ripellino: quella del deteatralizzatore e quella del maestro di trucchi, l’inventore del “sistema” e l’erede della tradizione ottocentesca con la sua “brama di ciarpe” e di travestimenti.
Un teatro senza regista?
Ma se l’orizzonte è quello dell’attore corpo-mente in scena, organicità irriproducibile anche nell’epoca dell’assolutismo tecnologico, corpo che pensa e mente che sente, cavallo e cavaliere insieme... che ne è del regista? Quale istanze pedagogiche rimettere in gioco? Che senso dare all’ambizione di Methodika di educare gli educatori perché la didattica teatrale diventi scienza?
Jurij Alschitz racconta (La matematica dell’attore, Ubulibri, Milano 2004) di essere passato nel corso della sua carriera dall’idea di regia come competenza negli effetti scenici, nei “trucchi”, a quella come messinscena di un proprio mondo nel quale far vivere anche altri (gli attori), fino a quella come organizzazione della vita interiore dell’uomo, cioè della vita altrui. Oggi, confessa, il senso della professione del regista gli sembra consistere nell’“organizzare la primavera”, ovvero nel “creare le condizioni da cui ha origine la vita, e poi semplicemente nell’osservarla e nel conservarla così com’è. La missione del regista consiste nel creare un clima particolarmente adatto alla nascita di nuovi germogli, una stagione propizia affinché le cose nascano”.
È, a ben vedere, l’immagine di un regista-pedagogo, saggiamente maieutico e consapevole delle proprie responsabilità nello sviluppo delle qualità degli attori come di quelle nei confronti del Teatro come “casa comune”. Su quest’ultimo aspetto Alschitz insiste anche nelle conclusioni del suo recente Teatro senza regista (Titivillus, Corazzano 2007): “Grazie al lavoro in Europa, Asia, America del Sud e del Nord, mi sono sincerato di persona (e non sui libri) che il teatro è uno solo. Gli attori, i registi, le scuole teatrali, le tradizioni sono molto diversi, e tuttavia si crea l’impressione che si tratti di un unico teatro. Un cosmo enorme dove vivono tutti insieme pianeti dissimili. Un’unità di dissimili. Tutti gli opposti (Est-Ovest, classicità-avanguardia, vecchi-giovani) non hanno senso. Il Teatro è un organismo unitario con problemi comuni. È un fatto collettivo e si costruisce insieme. Tutti noi insieme siamo una sola compagnia. Insieme dobbiamo costruirlo e insieme a lui dobbiamo vivere”.
Il regista-pedagogo, dunque, è anche un pedagogo-regista, nel senso che sa assumere il carico di responsabilità derivante da tale visione unitaria del teatro, a cominciare dalla necessità di un’educazione permanente degli attori. Non a caso Methodika si propone esplicitamente come occasione per scoprire “l’importanza di tornare, a quarant’anni, giovani studenti per una settimana”. In questo senso, Methodika è davvero fedele alla linea stanislavskiana che, come testimonia Toporkov (in Stanislavskij alle prove. Gli ultimi anni, Ubulibri, Milano 1991), non mancava di richiamare al dovere dello studio: “Ricordate: tutti gli attori esigenti e di valore devono tornare a studiare a intervalli regolari, diciamo ogni quattro-cinque anni. Bisogna anche reimpostare la voce, che col tempo subisce mutamenti, e fare pulizia della sporcizia accumulata, intendo per esempio la civetteria e il narcisismo. Dovete allargare giornalmente i vostri orizzonti culturali e tornare a studiare per almeno sei mesi a intervalli di tempo regolari. Adesso è chiaro il compito che vi attende? Lo ripeto: non pensate allo spettacolo ma solo allo studio.”
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La seconda giornata fiorentina di riflessone al Teatro della Pergola ha offerto una mattinata di riflessione sul rapporto tra il teatro e la città (era questo del resto il titolo dell’incontro), mentre il pomeriggio è stato focalizzato sul tema della pedagogia teatrale.
CESARE MOLINARI
Il rapporto della città di Firenze con il teatro è stato a centro dell’ampia riflessione di Cesare Molinari, che è partito evocando gli studi di Ludovico Zorzi (e il volume che ha dato il titolo al progetto). Ha poi sottolineato il ruolo avuto dal teatro nella formazione della civiltà rinascimentale. Certo, secondo Ortega y Gasset, “il teatro, nel suo significato fondamentale, indicava un edificio”; e anche per gli umanisti l’edificio teatrale, con il tempio e il palazzo del governo, era uno dei simboli della città e uno dei suoi punti di riferimento. Tuttavia storicamente la pratica teatrale precede sempre la definizione architettonica di un edificio, a Firenze e anche a Venezia, dove venne aperto il primo teatro commerciale; e pure a Londra, dove nell’età elisabettiana nacquero i primi teatri come edifici indipendenti, e dove successivamente nascerà il primo quartiere dei teatri del mondo. Il termine stesso “teatro”, riferito alla drammaturgia e allo spettacolo, si afferma solo alla fine del Cinquecento, quando inizia a prendere il sopravvento su “festa” o “commedia”. Ed è proprio dalla commedia, ha proseguito Molinari, che ha preso vita il teatro moderno: prima a Ferrara, con le traduzioni dei testi latini (a cominciare dalla Cassaria dell’Artiosto nel 1508 a Ferrara); e poi nel 1513 a Urbino con la prima commedia erudita italiana, La Calandria, che tuttavia si muove ancora su modelli novellistici; dunque per certi aspetti il teatro moderno nasce solo nel 1520 con La Mandragola, che fissa i modelli strutturali della commedia e l’equivalenza tra la struttura della vita e quella della commedia. Tuttavia emerge subito un paradosso. Proprio nel momento in cui Machiavelli fonda la moderna drammaturgia, sta nascendo anche la scenografia prospettica: la scena della commedia è la scena della città – della città ideale; ma nel prologo della Mandragola è lo stesso Machiavelli a teorizzare l’indifferenza dell’apparato scenografico rispetto allo sviluppo della commedia.
Proprio sulla spinta dei commediografi, a Firenze si moltiplicheranno i luoghi di spettacolo: nelle case e nei luoghi pubblici, con compagnie di amatori che si sostituiscono alle antiche confraternite. Ma nel Sei e Settecento il teatro resta soprattutto un piacere domestico, la cui memoria scompare presto (anche se non mancherebbero spettacoli degni di memoria anche per i loro aspetti sperimentali). A essere degno di memoria, per i contemporanei, è invece il teatro della corte medicea, prima a Palazzo Medici-Ricciardi, poi a Palazzo Vecchio e agli Uffizi e infine a Palazzo Pitti; è allora – tra l’altro – che nasce la critica teatrale, con descrizioni fin troppo dettagliate di quegli spettacoli: anche se in effetti le cronache non s’interessano quasi alla commedia vera e propria (un evento troppo borghese, che per loro si esaurisce nel racconto della storia), per soffermarsi invece sulla “maraviglia” degli intermezzi, che costituiscono il vero spettacolo. Da questa macchina spettacolare che trascende l’attore nascerà, alla Camerata dei Bardi, l’opera lirica: per la precisione, il recitarcantando sarà il frutto di una ricerca umanistica sulla voce umana contrapposta alla vocalità contrappuntistica. Di qui un secondo paradosso: perché nello spettacolo musicale la parola perderà importanza, a favore del balletto e del virtuoso che canta.
Per la Corte e per la città il teatro diventa l’elemento centrale di una celebrazione complessiva. La commedia si recita all’interno dei palazzi, ma trova la sua cornice all’esterno: nella processione con l’ingresso del principe la Corte stessa diventa spettacolo per la plebe, e la città (opportunamente modificata) diventa essa stessa una scena per coinvolgere l’intera popolazione nello splendore del potere: è un teatro del coinvolgimento emotivo, come Brecht avrebbe definito le adunate naziste.
Nel XVII secolo (la Pergola viene inaugurata nel 1652 da Cosimo I, restando a lungo essenzialmente un teatro musicale) il vero teatro è dunque l’opera - lo spettacolo meccanico e musicale. A esso non si affianca un teatro dei testi e dell’interpretazione, quanto la commedia dei puri attori, che instaura un rapporto complesso con la corte, che è al tempo stesso cliente e protettore dei comici (basti pensare al Teatro di Baldracca, con lo spioncino da cui il Duca poteva osservare non visto gli spettacoli). Le due tradizioni non s’incontrano spesso: accade per esemopio nel 1589, con le nozze di Ferdinando I, quando i Gelosi allestiscono La pazzia di Isabella (e sarà a lungo l’unica relazione dettagliata su uno spettacolo dell’arte).
Solo nell’Ottocento le accademie verranno affiancate e poi sostituite da impresari privati; e nella stessa epoca nasceranno le scuole di recitazione (con la cattedra di declamazione di Antonio Morrocchesi all’Accademia di Belle Arti nel 1820), destinate non tanto alla preparazione degli attori, ma in generale a tutti gli uomini pubblici (e si avverte l’eco della ratio studiorum gesuitica). Da allora a Firenze la pedagogia teatrale ha avuto una ricca tradizione, dalla Regia Scuola di Recitazione di Luigi Rasi nel 1870 fino a Orazio Costa, Giorgio Albertazzi, Eduardo e Filippo De Vittorio Gassman in tempi più recenti.
Cesare Molianari conclude il suo ricco excursus con un richiamo all’antica “scuola cinese dei nomi”. Ormai il termine “teatro” ha finito per coprire un’area semantica troppo generica ed estesa, sarebbe necessario anche in questo caso raddrizzare la relazione tra i nomi e fatti, senza continuare a usare le stesse parole per mestieri ormai diversi.
SERGIO GIVONE
Per riflettere in termini filosofici sul rapporto tra il teatro e la città, Sergio Givone parte dalla “scena della polis” e dal doppio valore del suo genitivo: quello oggettivo, ovvero la città “politica” che viene messa in scena e arriva sulla scena (il teatro politico in senso stretto); ma anche quello soggettivo, ovvero la città che mette in scena sé stessa, autorappresentandosi: è la teatralizzazione della politica, la spettacolarizzazione di una politica che si mette in scena per coinvolgere le coscienze.
Prendere in considerazione questi due aspetti contemporaneamente conduce a una terza figura: il teatro come incarnazione del dialogo e della parola (al di là del rito), attraverso l’attore che agisce pensieri, emozioni, conflitti. Questa autorappresentazione che la città dà di sé stessa arriva fino alla disgregazione, alla distruzione del senso, per poi trovare in scena la possibilità di una ricostituzione, di una ricomposizione.
Questa potenzialità del teatro trova, nell’intervento di Givone, tre esemplificazioni.
In primo luogo la tragedia greca, nell’interpretazione di Vernant e Vidal-Naquet. In un momento di passaggio, tra il VI e il V secolo a.C., la tragedia costitusce un dispositivo sociale per emanciparsi da un pensiero autoritario e violento, per passare da un regime sociale fondato sulla stirpe e uno fondato sul diritto di cittadinanza. Il teatro fonda così il diritto: il poeta tragico assume il mito e la tradizione per interrogarli e cercare legittimazione. Non a caso per i cittadini ateniesi il teatro è un obbligo morale, civile e politico: si tratta di prendere coscienza di una diversa forma di legittimazione. Prima che questioni politiche, il teatro greco affronta dunque questioni metafisiche, fisiche, fisiologiche.
Un secondo esempio è quello del teatro shakespeariano, che si sviluppa in un’altra fase di passaggio: quella a un ordine sociale necessario e inconsistente, dove i ruoli sociali sono inesistenti e tutto ha un’anima caotica. Ma dove trovare senso, si chiede Shakespeare? Proviamo a riflettere sull’uso di un termine come “nothing” nel suo teatro(solo sette anni dopo a morte di Shakespeare John Donne introdurrà il termine astratto “nothingness”). Il nulla non a caso è al centro di molti giochi linguistici del fool, l’unico personaggio che non a un preciso ruolo sociale; non a caso una delle più celebri occorrenze del termine la dobbiamo a Macbeth, il buffone di sé stesso, quando afferma la vita non è altro che "una storia narrata da un idiota, piena di rumore e di furia, ma che non significa nulla”.
Ultimo esempio, il Wilhelm Meister di Goethe. L’amico Werner gli spiega che, per i borghesi come lui, l’identità personale coincide con l’avere, che a sua volta è frutto del fare; solo i nobili possono far coincidere, “nel gran mondo”, essere e apparire. Ma allora, si chiede Wilhelm, io come posso formare me stesso? Come posso portare valore al mondo? Dove posso formare il mio io nel mondo della vita (e non nel gran mondo dei nobili), per essere libero? Per Wilhelm, l’unica bildung, l’unica posibilita di auto-formazione è possibile solo nel teatro, che permette di muoversi liberamente.
E oggi, quale può essere il rapporto del teatro con la polis? Dopo che Samuel Beckett ha portato in scena il naufragio irrimediabile della polis? Oggi il teatro diventa memoria, e insieme – con Adorno – promessa del possibile
EZIO GODOLI
Per affrontare il nodo del rapporto teatro-città dal punto di vista dell’architettura e dell’urbanistica, Ezio Godoli parte dalla definizione di città come “comunità di spirito e sentimento” che sgorga prima di tutto nei teatri e all’opera. E’ proprio partendo dal teatro che si definiscono i caratteri della città: compattezza, intensità della vita, pubblica, fitta trama di relazioni.
Rispetto a questa prospettiva, i problemi per le città americane nascono dalla desertificazione dei centri urbani negli anni Sessanta. Per gli urbanisti americani, i modelli di riferimento saranno le città europee da un lato, e Manhattan e Broadway dall’altro (una realtà peraltro atipica per gli USA). Per gli urbanisti europei, il problema delle città si pone invece con la distruzione dei centri urbani nella Seconda guerra mondiale, quando molti tentativi di ricostruzione, in Germania e in Olanda, fanno dei centri di molte città altrettanti deserti urbani. In Italia l’emergenza post-bellica è minore, ma il problema si porrà con l’espansione urbana del dopoguerra: anche in questo caso, Guido Canella si troverà a riflettere sul valore del teatro, suggerendo di passare dal monocentrismo (anche dei luoghi di spettacolo) al decentramento per riqualificare le periferie.
Un’ulteriore spunto di riflessione arriva dal catalano José Luis Sert: radio e tv non bastano per creare una città, costituiscono un sistema di informazione nelle mani di pochi. Al contrario, il teatro può riavvicinare l’uomo all’uomo, perché quello di cui abbiamo bisogno sono luoghi di incontro tra persone.
Oggi il problema del cuore delle città europee è che non offrono più terapie, ma sono essi stessi malati. I centri cittadini sono diventati delle Disneyland per il turismo di massa, dove il commercio su modelli globali domina tra punte di degrado.
La chiusura di molti luoghi di spettacolo – a cominciare dai cinema e dalle sale polivalenti, con il loro indotto nel tessuto urbano – ha portato anche in Italia a un depauperamento dei luoghi della democrazia: quante sono state in passato le assemblee che si sono tenute nei teatri prima di riversarsi nello spazio pubblico della piazza?
MARC FUMAROLI
Lo studioso francese non ha ripreso l’intervento che aveva preparato, ma ha preferito approfondire alcuni dei temi affrontati nella mattinata, ripartendo dalla “querelle dea anciens et des modernes” che animò l’Académie Française alla fine del XVII secolo. I primi temevano l’avvento di una società di solitari, con mezzi di comunicazione che in realtà espongono a spettacoli fantasmatici. Al contrario, in teatro si imparava ad abitare le parole e a dialogare con gli altri: per loro la formazione di personalità libere era possibile solo attraverso il confronto di collettività libere.
Per Aristotele, tutto quello che sappiamo è fondato su una esperienza viva, diretta. Già all’epoca della querelle tra antichi e moderni si vedevano individui astratti, che vivevano in una seconda natura: persone, diremmo oggi, che vedono il cinema, la tv, il computer, ma non foreste o animali vivi. Un mezzo come la tv isola, il suo spettatore è una creatura passiva.
Il teatro è oggi la sopravvivenza di una società dove si dialogava direttamente, ci si conosceva e al limite ci si odiava: ma tutto questo accadeva realmente. Il teatro era un punto di riferimento, una sorgente di civiltà. Oggi viviamo nell’illusione di un villaggio globale che distrugge le comunità locali. E ci accorgiamo di una cosa. L’arcaismo del teatro è la sua modernità.
RENATO NICOLINI E FRANCO CAMARLNGHI
Il confronto tra Renato Nicolini e Franco Camarlinghi riporta agli anni Settanta, quando entrambi erano assessori alla Cultura, il primo a Roma, il secondo a Firenze.
Per Nicolini il fatto che ancora oggi, dopo trent’anni, si continui ancora a parlare dell’Estate Romana dipende dal fatto che quei nove anni non volevano significare nulla (insomma, non avevano alle spalle un progetto ideologico o pedagogico). In precedenza gli assessori alla cultura si dedicavano ad attivit assai noiose come inaugurazioni, premi e convegni: è bastato togliere il tappo di bottiglia e dare spazio alla vitalità di realtà che già esistevano. Di fronte alla “tv Circe”, è basato trovare l’antidoto, ovvero Hermes - l’interazione: trasformare i fantasmi in corpi e in voci.
Per Franco Camarlinghi si è trattato anche di reagire alle trasformazioni degli anni Settanta, con una Firenze che da città per turisti stava già diventando città dei turisti; contemporaneamente, i “beni culturali” iniziavano a trasformarsi in “giacimenti culturali”, in una visione totemica della cultura, dove a contare sono soltanto i numeri: quanti visitatori agli Uffizi e quanti alla Cappella Sistina? Il suo, ha sostenuto Camarlinghi, è stato un tentativo di contrastare il fenomeno, attingendo al fermento di energie disponibili in quel momento nella città. Successivamente, quella degli assessorati alla cultura è diventata un’ideologia, che ha portato a fenomeni di proliferazione e degenerazione, con iniziative che non erano più legate alla città, ma producevano iniziative fini a sé stesse.
Nicolini, architetto e urbanista, è poi tornato alla definizione di Aldo Rossi: “La città è la scena fissa della vita”, un po’ come la scena classica rispetto al teatro. Anche se, ha aggiunto Nicolini, non dobbiamo esagerare con l’immaginario e il simbolico: come politici e amministatori, dobbiamo restare brechtiani, non possiamo fare la morale o pretendere di indicare la strada giusta. Perché la politica non deve dirci come dobbiamo vivere: deve solo creare le condizioni perché si svolga la vita. E dove si svolge oggi la vita pubblica? In spazi chiusi e protetti come musei e ipermercati, non più nelle piazze.
Per Camarlinghi il nodo è l’identità di una città come Firenze, che non dev’essere affrontato retoricamente. In primo luogo è necessario evitare di consegnare la città al sistema della moda. E’ necessario dire no alla politica dell’evento, perché solo la produzione di cultura può servire a costruire un’identità.
Ad aprire nel pomeriggio la sessione dedicata alla pedagogia teatrale sono state alcune esperienze radicate nel territorio: Luciano Falchini, Responsabile FSE Regione Toscana; Stefano Fantoni, Dirigente Formazione Provincia di Firenze; Virgilio Sieni, Direttore Accademia sull’Arte del Gesto; Giovanni Varoli, Presidente MaggioFormazione.
MARCO DE MARINIS
E’ seguita poi una tavola rotonda con alcuni maestri della scena contemporanea, introdotta da una relazione di Marco De Marinis sulla “identità esplosa dell’attore”. A questa esplosione hanno contribuito diversi elementi:
- la moltiplicazione delle poetiche;
- la caduta delle divisioni tra arti e generi, con il superamento tendenziale delle differenti specificazioni delle stesse figure artistiche; in questa direzione si muovono, sin dai tempi delle avanguardie, le esperienze più innovative, attraverso fenomeni di contaminazioni, ibridazioni, osmosi;
- la caduta della distinzione tra professionismo e non professionismo, con la creazione di nuove forme di identità attorale: molti giovani teatranti sono semi-professionisti, che ricavano dagli spettacoli sono una frazione del loro reddito;
- percorsi di formazione fuori e contro le scuole tradizionali, dalla “antipedagogia teatrale” del Novecento all’autopedagogia degli anni Settanta e Ottanta, fino alla scolarizzazione permanente di questo decennio; vanno in ogni caso tenute presenti alcune eccezioni, come la Stoà della Raffaello Sanzio, la Non-Scuola delle Albe, l’Officina della Valdoca e il Workcenter di Grotowski e Richards a Pontedera.
Ancora, bisogna tener conto di due dinamiche interne alla pedagogia e che rientrano in quello che Piergiorgio Giacché definisce “consumo attivo”, ovvero la coincidenza di produttore e consumatore:
- l’ipertrofia del momento formativo, che diventa per molte realtà fonte di sussistenza (magari grazie ai fondi sociali europei);
- un processo di formazione che si autoriproduce: il “formato” diventa a sua volta “formatore”.
Si possono anche identificare alcuni sintomi di questa crisi. Dopo decenni di centralità dell’attore, i risultati teorico-pratici sono assai scarsi. Malgrado l’enfasi sulla formazione e la pedagogia laboratoriale, l’attore di teatro pare una specie in via di estinzione, come lamentavano Cecchi, Leo e Carmelo già nei decenni scorsi.
Meldolesi ha rilanciato la figura dell’attore-artista, che tuttavia non è sufficiente e rischia di apparire consolatoria. Taviani e Schino hanno posto l’accento sull’impossibilità di trasmettere il sapere, parlando di una “regia altra”, di maestri che sono anche anti-padri, che sembrano caposcuola ma sono in realtà lupi solitari.
Se guardiamo alle esperienze più avanzate della nuova scena italiana, vediamo che l’attore come soggetto creatore, come espressiva presenza scenica, appare poco, si nega e appare più da performer, da oggetto passivo,come ha esplicitato lucidamente Romeo Castellucci: l’attore “non è colui che fa, ma colui che riceve”; è dunque piuttosto immagine o figura, in uno spettacolo immagine, figurale, o in uno spettacolo-concerto.
ANATOLIJ VASSILIEV
Per Anatolij Vassiliev, reduce da un corso triennale di regia a Lione, la regia è una professione che si può e si deve apprendere e insegnare. In Europa il requisito principale per un regista è il talento; dopo il ’68 questa idea si è affermata anche in Francia, portando alla conseguente crisi della regia.
Fondamento del suo metodo sono i libri di Maria Knebel (uno tradotto di recente anche in Francia:L'analyse-action di Anatoli Vassiliev, Maria Knebel, Nicolas Struve e Sergueï Vladimirov) e la propria esperienza pedagogica. Perché va ricordato un principio fondamentale: gli allievi non seguono i corsi solo per imparare qualcosa, ma sono anche allievi di un Maestro.
Il corso di Lione aveva dodici allievi (selezionati attraverso un concorso con cinque prove in tre giorni), più cinque uditori e due stagisti; il corso è stato concluso da sedici persone, che hanno ottenuto il diploma di regia.
Il programma prevedeva ogni giorno 10-12 ore di lavoro per sei giorni alla settimana, articolato in:
- training collettivo;
- lezioni individuali;
- lezioni di storia, filosofia, religione, estetica...;
- lavoro con il maestro.
Gli allievi hanno lavorato su diversi materiali:
- i Dialoghi di Platone;
- classici francesi con strutture analoghe a quelle di Platone;
- trattati di estetica teatrale, da Gordon Craig a Wilde, ma sempre in forma di dialogica.
Tutti gli allievi registi dovevano anche recitare e in un anno sono saliti in scena tra le 70 e le 100 volte.
Nel secondo anno il programma stato centrato sull’Impromptu de Versailles di Molière e su Cechov: dopo aver imparato le strutture ludiche, si è operato il passaggio alla tecnica della reviviscenza e al teatro psicologico.
Nel terzo anno, al centro del lavoro sono stati i testi francesi di avanguardia, e una sorta di dialogo tra i testi di Platone e le immagini di Magritte, per imparare a creare immagini visive e mettere in rapporto parole e immagini.
I saggi finali sono consistiti in uno spettacolo pubblico: tre serate con 19 spettacoli, ciascuno tra una e quattro ore di durata.
Alcune notazioni finali. In primo luogo, una differenza di mentalità tra Russa ed Europa: gli allievi francesi avevano un bagaglio più pesante, erano più lenti a partire, salivano più lentamente ma quando arrivavano in quota ci restavano a lungo. In secondo luogo, la necessità che il Maestro segua individualmente gli allievi. Infine, la consapevolezza che l’obiettivo di uno stage non dev’essere la formazione ma la conoscenza.
JERZY STHR
Per Jerzy Stuhr, siamo oggi testimoni e partecipi di un cambiamento veloce e profondo. Il teatro d’inizio secolo è molto diverso dal teatro di fine secolo. I punti di cambiamento:
- il teatro non è più un luogo dove si presenta la sorte umana tramite personaggi letterari; davanti all’Amleto di Wajda nel 1981-82, il 90 per cento del pubblico provava lo stesso stato d’animo del personaggio; ora invece si procede per frammenti, collage, improvvisazioni; in altri termini, una volta il personaggio esprimeva l’io dell’attore, ora l’attore usa i personaggi per esprimersi;
- il teatro non è più il luogo dove è possibile esprimere i sentimenti di una generazione, perché semplicemente non esiste più la generazione: resta l’individualismo;
- il teatro non è più il luogo della protesta politico-sociale, né della ribellione;
- il teatro non è più il luogo della ricerca antropologica.
Il vecchio teatro aveva la sua scuola, ed era una scuola centrata sulla parola: dunque si insegnavano l’ipostazione della voce, la dizione, eccetera; quella scuola aveva un metodo: il realismo psicologico stanislavskiano; e aveva anche un’alternativa: il metodo brechtiano. Utilizzava grandi spazi e richiamava un grande pubblico, anche mille e più spettatori a replica.
Oggi il teatro parla in prima persona, non più in nome di una generazione o di altre entità collettive: e lavora sull’intensa ricerca dell’altro. Questo teatro lo si fa sottovoce, quasi in forma di confessione, per esprimere la propria solitudine, la propria debolezza, la propria diversità. E’ un teatro che vuole toccare, accarezzare, e non dialogare. Ha bisogno di piccoli spazi, al massimo cinquanta persone. Non ha ancora la sua scuola.
Stuhr ricorda un episodio emblematico: quando Kristian Lupa si presentò per la prima volta, avvertì: “Guardate, ma non giudicate la voce e la dizione”. Anzi, la bella dizione appare artificiale, mentre una voce sporca diventa garanzia di autenticità dell’espressione.
I ragazzi che oggi arrivano a scuola, forse non hanno letto Cechov, ma sanno moltissime cose sull’immagine, sul colore, sul disegno.
La mentalità del teatro di fine secolo era basata sul principio di causa ed effetto, quella dei giovani è plasmata dal telecomando: cambio e seguo quello che mi viene mostrato.
La nostra sfida consiste allora nel capire come insegnare altre cose:
- l’improvvisazione (ma come si insegna l’improvvisazione?);
- il movimento;
- il ritmo che costruisce lo spazio;
- la ricerca interiore (dunque più preparazione psicologica che osservazione);
- dare maggior coraggio all’immaginazione.
Per concludere, Stuhr ricorda una confidenza di Andrzei Wajda: “Sai perché negli ultimi vent’anni io ho perso e Kieslowski ha vinto, nel rapporto con il pubblico? Io ho deciso di parlare in nome del popolo, lui in nome del singolo essere umano”.
JACQUES LASSALLE
Jacques Lassalle ricorda che nei suoi cinquant’anni di teatro ha vissuto momenti molto diversi, nella forma, nella formazione, nella rappresentazione, nelle illusioni. Ma preferisce concentrarsi anche lui su alcune trasformazioni in atto.
In primo luogo, però, bisogna ricordare che il tempo della creazione e della maturazione artistica è molto diverso dal tempo accelerato dell’attualità, della storia che si fa: dunque come è possibile conciliare questa velocità e questa urgenza con la necessità organica della nostra durata biologica?
Per quanto riguarda Firenze, non può essere vittima della sua opulenza artistica, del suo passato, del dinamismo turistico. Lassalle ricorda i suoi diciotto anni in una piccola città della periferia parigina, dove faceva teatro per quelli che non potevano entrare in sala, sull’onda delle utopie del teatro popolare di Vilar e del teatro epico; anche se poi per portare in platea quel pubblico che era fuori dalla sala, era necessaria una maggiore modestia e umiltà.
Dunque è necessario evitare un pensiero generalista: è necessario pensare anche al piccolo, perché il teatro è un’attività piccola, artigianale, impossibile, scandalosa. Ed è difficile sfuggire alla dittatura del mercato: la “cultura del risultato” è la forma più insidiosa e implacabile di censura.
Lassalle ricorda di aver iniziato a fare teatro ribellandosi all’insegnamento ricevuto. Non si trattava di rispondere a una domanda che non c’era, ma di imporre un’offerta: si trattava di portare a teatro chi non ci andava, per vedere opere che accrescono la nostra intelligenza del mondo e magari ci spingono a cambiarlo.
Per il regista francese, insegnare è già mettere in scena, e mettere in scena è ancora insegnare. Anche perché, prosegue, “non insegnavo quello che sapevo, ma quello che cercavo”. E infatti per lui il miglior maestro è quello che è meno professore, quello che modella e forma di meno, quello che ama chi gli resiste e si costruisce autonomamente. Infatti per Lassalle oggi circolano troppi guru, e il teatro finisce per essere troppo tribale. Invece l’importante è salvare la diversità, far accettare la propria diversità, preparare gli allevi a pratiche diverse, anche contraddittorie.
Ma allora, come è possibile trovare ancora uno spazio d’incontro, dove può esistere un obiettivo comune? Per Lassalle la strada è il ritorno al testo: “Tout est dans le texte”. Dopo Beckett, non ci sono più racconto, personaggio, dialogo; tutto viene messo in discussione di fronte all’opacità all’incertezza del mondo, si rinuncia a ogni lettura coerente. E invece è ancora necessario cercare di capire senza cedere alla tentazione della derisione e dell’apocalisse, resistendo alla violenza. Certo, è un’utopia: ma può esistere un teatro senza utopia?
MASSIMO CASTRI
Massimo Castri si concentra invece sulle manchevolezze e sul mancato sviluppo del teatro italiano, anche sul versante pedagogico. Del resto, esordisce, in soli 35-40 giorni di prove come è possibile rendere presente un testo, dialettizzarlo nel rapporto con il pubblico?
Castri confessa di non sentirsi un buon maestro, e anzi di averne cercato uno a lungo senza trovarlo, e di essersi dedicato all’insegnamento anche per questo, sia alla Civica Scuola d’Arte Drammatica di Milano sia in scuole di specializzazione: anche il recente Così è (se vi pare) è il frutto di un’esperienza di questo genere, dopo una lunga assenza dall’insegnamento.
Castri sottolinea le manchevolezze della formazione teatrale in Italia, con una premessa: esiste un qualche sapere da trasmettere? Perché si creato storicamente un vuoto, a partire dalla prima metà del Novecento, quando in Italia non è arrivata la rivoluzione di Stanislavskij, e dunque non si sono imposte le tecniche interiori dell’attore: e infatti da noi l’attore fatica a elaborare il complesso del sottotesto. Al ritardo accumulato si è aggiunto dopo la Seconda guerra mondiale il fallimento del teatro pubblico, che non è riuscito ad ammodernare il teatro nei suoi diversi aspetti: le tournée, il radicamento nelle città, i tempi della prove e naturalmente anche la formazione. Il fallimento diventa evidente negli anni Ottanta, ma nel frattempo il vuoto pedagogico aveva già iniziato a essere riempito da un autentico supermercato di tecniche, stili e insegnamenti, dai famosi seminari di venti giorni, in cui ovviamente non si può imparare nulla. La grande regia degli anni Cinquanta ha coperto questo vuoto, imponendo la figura d un mastro che insegna una partitura da recitare.
Oggi la situazione è molo difficile, perché manca un sistema teatrale al cui interno diventa possibile rifondare la formazione, perché non esiste un metodo di riferimento, perché gli insegnanti via via scompaiono. Dunque, conclude Castri, la mia scelta è stata quella di creare momenti di specializzazione per prova e a salvare alcuni talenti.
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E’ in libreria il nuovo libro di Mimma Gallina, Organizzare teatro a livello internazionale. Linguaggi, politiche, pratiche, tecniche (Franco Angeli, Milano, 2008, 320 pp., euro 26,00, realizzato in collaborazione il Politecnico della Cultura delle Arti delle Lingue), con contributi di Fanny Bouquerel, Giovanna Crisafulli, Andrea Pignatti, Oliviero Ponte di Pino e Alessandra Vinanti.
Il voume verrà presentato venerdì 22 febbraio, ore 18.00, alla Civica Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano alla presenza degli autori.
In anteprima per il lettori di ateatro, un estratto del capitolo iniziale di Oliviero Ponte di Pino.
La città e il carrozzone
Il teatro si muove da sempre tra due poli in apparenza inconciliabili e tuttavia entrambi indispensabili.
Da un lato il teatro è espressione di una comunità, è un’arte civile che presuppone un radicamento nella collettività che è insieme il suo committente e il suo destinatario. Il teatro è dunque un motore di identità, un’occasione attraverso la quale una società si mette in scena, nelle sue varie articolazioni: con la sua cultura, con il suo immaginario, con le sue strutture sociali, con i suoi rapporti di potere, ma anche con le proprie contraddizioni e conflitti.
D’altro canto, fin dai tempi del mitico carro di Tespi il lavoro dell’attore è legato al viaggio. Gli istrioni che nelle piazze, nei mercati e nelle fiere “trasformano e trasfigurano il proprio corpo sia con turpi salti o gesticolazioni sia turpemente denudandosi, sia ancora indossando orribili maschere” (così li definisce il Penitenziale di Tommaso di Cobham, arcivescovo di Canterbury, alla fine del XIII secolo) sono giramondo che fanno parte di una sorta di società parallela, e forse di una fragile utopia. Anche perché spesso la città li emargina, ritenendo i guitti moralmente e politicamente sospetti. Il teatro è dunque incontro con l’altro e con il diverso, è esso stesso esperienza di diversità per attori e pubblico, e diventa dunque momento di scambio e di conoscenza.
La diversità è la materia base del teatro. Il fatto che oggi sia vissuta come una drammatica condizione storica e che il suo tema inquieti i governi e i singoli individui, non deve farci dimenticare che essa è ciò su cui il teatro ha sempre lavorato. Chi fa del teatro la propria professione deve saper lavorare sulla propria diversità. La deve esplorare, tesserla, trasformando la cortina che ci divide dagli altri in un velo ricamato, affascinante, attraverso il quale gli altri possono guardare, e ciascuno possa scoprire le proprie visioni. (...) Per un immigrato come me, che afferma che le sue radici sono nel cielo, il teatro è divenuto lo strumento per cercare l’incontro e lo scambio, per superare l’indifferenza reciproca. E’ una tecnica che costruisce relazioni, aiuta a resistere all’omologazione e costruisce ponti.
(Eugenio Barba, discorso in occasione della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Plymouth il 27 ottobre 2005)
Paiono così contrapporsi e intrecciarsi un’ideologia urbana che dà al teatro una forte impronta politica, e una mitologia nomade, che sottolinea invece la valenza antropologica dell’incontro teatrale.
Stabili e scavalcamontagne
Ogni spettacolo teatrale nasce all’interno di un contesto che ha determinate connotazioni sociali e politiche, una tradizione culturale ed estetica, e dunque un preciso linguaggio. In questo contesto ha anche, naturalmente, il proprio pubblico, in grado di cogliere e decodificare i segni e i messaggi, le emozioni e le idee che quello spettacolo vuole trasmettere: e naturalmente quel pubblico può reagire con il rifiuto e con lo scandalo, perché il teatro può anche essere provocazione (e anche perché spesso, come recita l’adagio, nemo propheta in patria).
Dopo di che, uno spettacolo, o meglio una compagnia, può viaggiare, al di fuori del contesto in cui è nato e cresciuto. E’ inutile sottolineare l’importanza di questi vagabondaggi. L’esempio canonico riguarda gli attori italiani che nel Cinque e Seicento portarono la Commedia dell’Arte in tutto il continente e, si può dire, crearono il teatro europeo, soprattutto per la straordinaria fortuna che ebbero a Parigi.
Prima di varcare le Alpi in cerca di fortuna, le nostre compagnie di “scavalcamontagne” erano già abituate a viaggiare lungo la penisola, e gli attori italiani continuano a farlo ancor oggi, molto più dei loro colleghi. In questo il teatro italiano è assai particolare, proprio nella sua predisposizione al nomadismo. Anche perché dal punto di vista dello spettacolo il nostro paese non ha mai avuto (e non ha ancora oggi) una capitale. O meglio, ne ha avute tante, di ricchissima tradizione: da Firenze a Ferrara, da Mantova a Venezia, da Napoli a Milano. Nessuna di queste città era però in grado di garantire le lunghe teniture che permettono la sopravvivenza di una compagnia stabile: più precisamente, per una troupe era più redditizio e meno rischioso cambiare città e rinnovare il pubblico. Ancora oggi a Milano e Roma uno spettacolo di richiamo si replica per tre o quattro settimane al massimo, e nelle altre città italiane le permanenze sono molto più brevi. Ogni compagnia tende dunque a produrre un nuovo allestimento all’anno (o addirittura ogni due anni), da far girare nel corso della stagione nelle diverse piazze.
In questo il nostro paese è molto diverso dalla Francia o dall’Inghilterra, dove l’attività teatrale tendeva (e tende) a concentrarsi nella capitale; le tournée in giro per il paese avevano una importanza relativa e l’attività teatrale fuori dalla capitale era ridotta (anche se negli ultimi decenni sono stati fatti seri tentativi di decentramento, soprattutto in Francia). Metropoli come Parigi e Londra, con il loro grande bacino di utenti, consentono oggi agli spettacoli di maggior successo teniture di mesi – o addirittura di anni, come nel caso dei musical, che richiedono enormi investimenti produttivi che si possono ammortizzare solo su tempi lunghi.
Il modello italiano è altresì molto diverso da quello tedesco, dove i teatri erano invece legati originariamente alle diverse corti principesche e ducali, e sono poi diventati teatri municipali caratterizzati da una forte stabilità. Tipicamente in Germania la compagnia della città tiene in repertorio un numero di nuovi allestimenti (anche sei-otto) e di riprese sufficiente a coprire (quasi) tutta la stagione. La compagnia e l’istituzione sono dunque strutturate per rispondere a queste esigenze.
Il problema della lingua: grammelot e sopratitoli
La collettività cui fa riferimento una compagnia può dunque avere orizzonti assai diversi: una piccola città di provincia oppure la metropoli dove hanno sede i centri del potere, o addirittura un’intera nazione dove è necessario trovare le sollecitazioni più adatte per ogni piazza.
Vi è tuttavia un orizzonte cui deve far riferimento ogni compagnia teatrale, ed è quello della sua comunità linguistica.
Quello della lingua in teatro è un confine difficile da superare. E’ chiaro che lo spettacolo non è solo il testo drammatico: è anche mimica e gestualità, suono e spazio, luce e movimento. In tradizioni teatrali dove la lingua e la recitazione sono state maggiormente codificate (basti pensare all’Inghilterra da Shakespeare in poi, o alla Francia da Corneille e Racine alla Comédie Française), la voce e la dizione hanno un peso determinante; gli attori italiani sono invece apprezzati da sempre soprattutto per la loro capacità di “recitare con il corpo”, un’abilità che ha aiutato a superare la barriera della lingua e a ottenere straordinari successi all’estero: un recente clamoroso esempio è la fama planetaria di Roberto Benigni, con la sua fisicità esplosiva e liberatoria.
Un’altra antica abilità degli attori italiani, ripresa e rilanciata da Dario Fo, è il grammelot: “una serie di suoni senza senso apparente ma talmente onomatopeici e allusivi nelle cadenze e nelle inflessioni da lasciar intuire il senso del discorso” (Le commedie di Dario Fo, vol. II, p. 133), “un gioco onomatopeico di suoni, dove le parole effettive sono limitate al dieci per cento e tutte le altre sono sbrodolamenti apparentemente sconclusionati che, invece, arrivano a indicare il significato delle situazioni” (Il mestiere dell’attore, p. 67). Lo stesso Fo fa risalire l’invenzione del grammelot ai comici dell’arte che, ai tempi della Controriforma, utilizzavano questo trucco per sfuggire alla censura ecclesiastica e politica, attenta soprattutto ai testi e ai loro messaggi, e lo avrebbero poi usato per farsi capire all’estero.
Per limitare le difficoltà determinate per il pubblico dall’uso di una lingua straniera, si possono utilizzare altri accorgimenti. A partire da quello cui ricorre lo stesso Fo prima di esibirsi in un brano in grammelot: lo fa precedere da un breve prologo-didascalia in cui vengono sommariamente anticipati la situazione iniziale e lo sviluppo drammaturgico di quello che verrà poi recitato. E’ anche possibile distribuire agli spettatori una breve sinossi scritta che descriva la sequenza delle scene dello spettacolo. In alternativa, grazie alle moderne tecnologie, si possono predisporre una traduzione simultanea con cuffie (che però sovrasta la voce degli attori) o i sopratitoli proiettati su appositi schermi al di sopra o ai lati del boccascena. E naturalmente gli attori sanno da sempre che è molto più facile seguire uno spettacolo di cui si conosce già lo sviluppo, almeno a grandi linee, come nel caso dei grandi classici del teatro, dai tragici greci a Shakespeare.
Ma al di là di questi ausili, è risaputo che alcuni spettacoli “viaggiano” all’estero più facilmente di altri: sono quelli dove gli aspetti testuali hanno minore importanza, e dove invece viene enfatizzata la scrittura scenica, ovvero l’insieme di tutti gli elementi che concorrono all’evento spettacolare, “tanto le parole quanto l’immagine, tanto il testo corporeo quanto il movimento, tanto gli oggetti quanto l’ambientazione” (Giuseppe Bartolucci, Scritti critici 1964-1987, p. 325). Sono così favoriti la danza e il mimo, e gli spettacoli musicali; ancora, le diverse forme di teatrodanza e il nouveau cirque. Ma anche l’avanguardia che – proprio lavorando sulla pratica della scrittura scenica – a partire dagli anni Sessanta e Settanta ha valorizzato il corpo e l’immagine, e poi ha usato sulla scena le nuove tecnologie.
Incontri sconvolgenti
Oggi, nell’era della mondializzazione, quando il destinatario di ogni nostro gesto o messaggio è (almeno potenzialmente) l’intero pianeta, diventa sempre più difficile trovare l’equilibrio tra globale e locale, tra la comunità in cui si è nati e cresciuti e un pubblico il cui gusto è plasmato da artisti e celebrities che invadono la mediasfera, tra la fedeltà alle proprie radici e la proiezione su una platea pressoché infinita. Nel “qui e ora” planetario della CNN e di internet, la città e il viaggio sembrano aver perso il loro senso. Dopo l’esplosione delle comunicazioni di massa, il teatro appare una forma d’arte e comunicazione pateticamente élitaria: qualunque mediocre trasmissione televisiva raggiunge un pubblico molto più vasto dello spettacolo di maggior successo. Tuttavia proprio questa diversa e più antica misura nel rapporto con lo spettatore può aiutarci a indicare una strada: quello che può dare il teatro non sono i grandi numeri, ma l’intensità della presenza e la profondità dell’esperienza.
E’ stata proprio l’intensità sconvolgente di alcune presenze a cambiare in più di un’occasione la storia del teatro. Anche qui gli esempi potrebbero essere numerosi, ma bastano due episodi chiave della storia del teatro del Novecento.
Le apparizioni moscovite di Ernesto Rossi e Tommaso Salvini – che come molti altri grandi attori italiani, dai tempi degli Andreini “Comici Gelosi” e di Tristano Martinelli, straordinario Arlecchino nella Parigi di Maria de’ Medici, a quelli della Duse, vennero acclamati in tutta Europa – ebbero un effetto folgorante sui teatranti russi: proprio ammirando il Romeo di Rossi e l’Otello di Salvini e riflettendo sulla loro arte, Konstantin Stanislavskij diede un impulso decisivo a una riflessione destinata a fondare la regia e la recitazione moderni.
Qualche decennio più tardi, all’Esposizione Coloniale di Parigi del 1931, Antonin Artaud assistette per la prima volta a uno spettacolo balinese: quell’incontro fece scattare un’altra scintilla destinata a rivoluzionare il teatro contemporaneo, fino ad approdare alle teorizzazioni del Teatro della Crudeltà. Probabilmente quello che Artaud vide (o credette di vedere) non corrisponde a quello che è effettivamente il teatro balinese, e oltretutto il contesto in cui venne presentato quello spettacolo appare oggi politicamente ambiguo: ma l’importante è che la visione di un teatro “altro” e sconosciuto ebbe l’impatto di una rivelazione.
Lo scambio tra culture e tradizioni diverse è un’esperienza che può arricchire entrambi. Chi viaggia, portando la propria arte in nuovi mondi e offrendosi a nuovi sguardi, può utilizzare questa esperienza per aggiungere altri colori alla propria tavolozza e alle proprie tecniche di promozione: già nel Cinquecento Tristano Martinelli seppe imporsi sulla difficile piazza di Parigi dopo una complessa riflessione su di sé e sulla maschera di Arlecchino, e grazie a un conseguente e adeguato marketing.
Per lo spettatore, la visione dell’altro, l’immersione in un universo inesplorato, può avere un impatto dirompente e destabilizzare il suo immaginario (anche se spesso le novità “esotiche” vengono progettate e diffuse proprio per confermare e lusingare i luoghi comuni più prevedibili).
Non è un caso, allora, che Faust e don Giovanni – probabilmente i due unici miti moderni, i soli eroi tragici che negli ultimi secoli siamo stati in grado di aggiungere alle ricchissime mitologie antiche e classiche – abbiano viaggiato a lungo tra diverse tradizioni.
Il dottor Johannes Faust, medico e negromante tedesco, amico di Lutero e Melantone, divenne figura leggendaria in Germania grazie a vari Volksbücher (come quello di Johann Spiess, pubblicato nel 1587) per approdare nel 1592, grazie a una traduzione anonima, in Inghilterra e diventare l’anno successivo protagonista del capolavoro di Christopher Marlowe; tornato in Germania attraverso gli spettacoli di burattini, venne ripreso da Goethe nel 1772 in una riflessione creativa che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Il seduttore di Siviglia (come ha raccontato magistralmente Giovanni Macchia in Vita, avventure e morte di Don Giovanni), partito nel 1630 dalla Spagna di Tirso de Molina, arriva attraverso le compagnie dei comici italiani dal Regno di Napoli fino alla Parigi di Molière e alla Vienna di Mozart.
La capacità di adattamento di Faust e don Giovanni è probabilmente la prova della loro forza archetipica. O forse, più precisamente, le loro figure si sono andate arricchendo e affinando proprio attraverso i viaggi e le peregrinazioni da una cultura all’altra, fino a diventare patrimonio condiviso.
La nascita del teatro moderno: dal grande attore alla regia
Fino a pochi decenni fa l’Italia era un paese piuttosto povero, e dunque poco attraente per chi avesse voluto far fortuna esibendosi al di qua delle Alpi. Inoltre, come abbiamo accennato, il nostro paese è portatore di una ricchissima tradizione teatrale, che affonda le radici da un lato in una realtà antropologica e sociale assai varia, articolata in mille particolarità e tradizioni linguistiche (in primo luogo i dialetti) e culturali (basti pensare alle maschere, a cominciare ovviamente da Arlecchino e Pulcinella); e questa tradizione ha saputo mantenere un filo diretto con la straordinaria fioritura culturale delle corti rinascimentali. Il nostro è dunque un teatro insieme colto e popolare, dove da sempre s’intrecciano alto e basso, la corte e le campagne: basti pensare al Ruzante, apprezzato nel contado padovano e nei palazzi veneziani.
La bilancia commerciale del settore teatrale per l’Italia è stata dunque per secoli tendenzialmente in attivo. Si è già accennato alle fortune straniere dei Comici dell’Arte e dei grandi attori dell’Ottocento e dei primi del Novecento, i quali potevano oltretutto contare sull’affettuosa attenzione delle comunità italiane residenti soprattutto in Argentina, Brasile e Stati Uniti.
La situazione cambia con l’imporsi della drammaturgia ottocentesca, nelle sue punte artisticamente più elevate, ma soprattutto con i copioni del teatro di boulevard, assai apprezzato dal pubblico borghese dell’epoca; e ancora di più con la rivoluzione teatrale novecentesca e con l’avvento della regia. Sulle nostre scene, mentre la tradizione del grande attore e quella del teatro dei ruoli a esso legato si avviano all’inevitabile tramonto, i nuovi modelli stranieri arrivano con un certo ritardo.
La cultura europea combatte feroci battaglie culturali a favore del naturalismo e dei nuovi autori. Alla svolta del secolo il giudizio su Henrik Ibsen diventa il discrimine tra modernizzatori e conservatori, così come era accaduto poco prima per il teatro musicale con Richard Wagner (che nel 1876 crea il primo e più longevo festival moderno, quello di Bayreuth). Mentre gli ultimi grandi attori italiani trionfano nelle loro tournée in tutto il mondo, sul terreno della drammaturgia l’Italia può mettere in campo il decadentismo di Gabriele D’Annunzio, con un certo successo soprattutto parigino: nel 1898 Sarah Bernhardt interpreta La città morta, qualche anno dopo Claude Débussy musica Le martyre de Saint Sébastien.
Ma all’inizio del Novecento il clima culturale sta cambiando. Il divismo trova nuovo sfogo nel cinema, il naturalismo del palcoscenico non può competere con la riproduzione della realtà sulla pellicola, l’illusionismo scenotecnico non può rivaleggiare con i trucchi di un Meliès. Ad attrarre verso le poltrone dei teatri il pubblico più sofisticato delle capitali culturali non è più l’ammirazione per il grande interprete, in grado di trasmettere potenti emozioni, quanto l’aggiornamento culturale sul quale si appoggiano la regia e la sua evoluzione. Ora gli spettacoli si muovono spesso in seguito a inviti, che sono il risultato delle scelte operate da intellettuali e funzionari chiamati a progettare e dirigere le diverse manifestazioni culturali, rivolgendosi direttamente alle compagnie oppure utilizzando le agenzie che le rappresentano all’estero. Il modello non è più quello della tournée organizzata e gestita da capocomici alla ricerca di facili guadagni. Se prima ad animare il mercato internazionale era tendenzialmente l’offerta di un impresario che investiva nel progettare la tournée e sperava di incontrare il favore del pubblico nei diversi paesi visitati dalla star straniera, ora a far muovere uno spettacolo è piuttosto la domanda di organizzatori che selezionano dalla scena internazionale le esperienze più interessanti da proporre nello scenario culturale del proprio paese.
Tra le due guerre in Italia – dove il teatro resta ancorato ai vecchi modi del capocomicato – a svolgere questo compito di aggiornamento culturale sono in particolare le rassegne legate a due grandi istituzioni culturali come il Maggio Musicale Fiorentino e la Biennale di Venezia. In queste lussuose vetrine, che per il regime fascista rappresentano insieme un fiore all’occhiello e uno stimolo alla modernizzazione della vita culturale nazionale, approdano alcuni maestri della regia: tra gli altri, nel 1933 alla prima edizione del Maggio Musicale Fiorentino partecipano l’austriaco Max Reinhardt, che allestisce ai Giardini di Boboli con una compagnia d’attori italiani Il sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, il suo spettacolo-manifesto, destinato poco dopo a diventare un kolossal hollywoodiano; e Jacques Copeau, con La rappresentazione di Santa Uliva nel secondo chiostro di Santa Croce; il regista francese tornerà a Firenze nel 1935 per il Savonarola in piazza della Signoria e tre anni dopo per allestire un altro testo di Shakespeare, Come vi garba (ovvero As you like it), nel cortile del Bacchino.
La stagione dei festival
Le speranze e il fervore culturale che seguono la fine della Seconda guerra mondiale si concretizzano anche nei grandi festival con vocazione internazionale. Nel 1947 nascono il Festival di Avignone e quello di Edimburgo, nel 1948 quello di Aix-en-Provence. Viene rilanciato nel 1945 il Festival di Salisburgo, inaugurato da Felix Mottl nel 1887 e rilanciato da Max Reinhardt nel 1903. La Biennale di Venezia, nata nel 1895, riapre i battenti per la prosa nel 1947 e nel 1954 porta per la prima volta in Europa il teatro No. Nel 1958 il compositore Gian Carlo Menotti dà vita al Festival dei Due Mondi di Spoleto, che pochi anni più tardi fornirà lo sfondo a uno dei grandi romanzi italiani del dopoguerra, Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino.
Ogni estate, da decenni, Avignone e Edimburgo diventano vere e proprie “città-festival”, dove accanto alla rassegna ufficiale, ospitata nei teatri e negli spazi più prestigiosi, proliferano in tutti gli anfratti disponibili gli spettacoli indipendenti e autoprodotti: sono l’off di Avignone e il fringe di Edimburgo, che presentano centinaia di proposte, spesso al limite del dilettantismo; un feroce processo di selezione lancia autori, attori, gruppi, fenomeni e mode.
Per i festival internazionali l’età dell’oro sono probabilmente gli anni Settanta: l’esplosione creativa, iniziata nel decennio precedente con l’emergere della regia critica e dell’avanguardia del nuovo teatro, tocca il culmine. Le novità e le rivelazioni si susseguono, con personalità artistiche di straordinario livello che allestiscono spettacoli-capolavoro. Possono bastare due esempi: la Rassegna dei Teatri Stabili di Firenze, dove nel 1973 si ammirano tra l’altro le nuove messiscene di Ingmar Bergman (Sonata di fantasmi) e Peter Stein (Il principe di Homburg con Bruno Ganz), sancisce l’egemonia del teatro di regia; e la Biennale veneziana diretta nel 1975 da Luca Ronconi, diventato una star grazie al successo mondiale dell’Orlando furioso nel 1969, che chiama a raccolta l’avanguardia internazionale: nel giro di poche settimane in laguna è possibile scoprire i lavori – tra gli altri – di Eugenio Barba, Peter Brook, Jerzy Grotowski, Living Theatre, Ariane Mnouchkine, Meredith Monk, Memè Perlini, Giuliano Scabia, Andrei Serban, Robert Wilson, tutti all’apice della loro creatività. Quella Biennale è insieme una straordinaria vetrina e un grande laboratorio, così come lo era stato poco prima anni il Festival di Nancy creato da Jack Lang, che tra gli anni Sessanta e i Settanta aveva lanciato Jerzy Grotowski, il Bread and Puppett, Bob Wilson, Pina Bausch e Tadeusz Kantor.
A mettere in crisi quel tipo di manifestazione sono da un lato l’affievolirsi delle spinte innovative, dall’altro l’aumento dei costi da sostenere per far circolare le produzioni dei grandi teatri e dei nuovi maestri della scena. Se non vogliono diventare costosi musei, i festival devono dunque trovare motivazioni diverse e nuove formule.
Una prima soluzione consiste nel progettare delle rassegne di tendenza, in grado di identificare filoni emergenti o di portare all’attenzione di critica e pubblico nuove generazioni teatrali. Nel 1985 la Biennale Venezia diretta da Franco Quadri (dopo l’edizione del 1984 dedicata ai maestri Barba, Bausch, Castri, Serban, Wilson, quasi a ricollegarsi a quella ronconiana di un decennio prima, cui lo stesso Quadri aveva collaborato), presenta i gruppi del nuovo teatro italiano, facendo debuttare i lavori di Carrozzone-Magazzini, Giorgio Barberio Corsetti, Raffaello Sanzio, Santagata & Morganti, Marco Solari e Alessandra Vanzi, Andrea Taddei-Padiglione Italia e Teatro della Valdoca.
Nel decennio successivo Teatri 90, a cura di Antonio Calbi, presenta in tre successive edizioni una nuova onda di gruppi italiani, tra cui Motus, Fanny & Alexander, Masque, Teatro degli Artefatti.
Festival di tendenza (con alcune aperture internazionali) è quello di Santarcangelo, che da trent’anni esplora le frontiere del nuovo e ne consolida la tradizione. Rassegne come questa – così come il Kunsten Festival des Arts di Bruxelles – si sono assunte il compito di scoprire e valorizzare i talenti emergenti, e dunque attraggono critici e operatori stranieri, che fungono da talent scout in grado poi di far circolare i lavori più interessanti. Ma, anche in questo caso, la formula (o forse gli artefici-autori della manifestazione) dà periodicamente segni di stanchezza e impone costanti aggiornamenti.
Un’altra alternativa alle grandi e costose vetrine è rappresentata dalle rassegne tematiche. Le più antiche sono quelle dedicate al teatro classico, anche se in genere la loro apertura internazionale è scarsa. In Italia innanzitutto a Siracusa: la prima edizione del Ciclo di Spettacoli Classici risale addirittura al 1914. In Grecia (dopo una Elettra con Katina Paxinou nel 1938 a Epidauro), sia Atene sia Epidauro danno vita nel 1955 al loro Festival del Teatro Antico (rilanciando l’attività pionieristica di Eva Palmer-Sikelianos, che nel 1927 aveva allestito a Delfi il Prometeo accompagnato da un’esibizione di ginnasti).
Hanno grande tradizione anche le manifestazioni shakespeariane. La città natale, Stratford-upon-Avon, presenta da tempo spettacoli legati a Shakespeare: fin dal 1769, quando David Garrick organizza una prima rassegna (dove peraltro non è presente alcun testo shakespeariano); dalle rappresentazioni di Stratford nasce nel 1961 la Royal Shakespeare Company. A Stratford, nell’Ontario, Alec Guinness, protagonista di Riccardo III, inaugura nel 1953 uno dei più prestigiosi festival shakespeariani. Cinque anni più tardi, a Verona la prima edizione del Festival Shakespeariano si apre naturalmente con Romeo e Giulietta, tradotto da Salvatore Quasimodo e affidato alla regia di Renato Simoni e Giorgio Strehler. Ma sono sempre più numerose le “personali” dedicate a uno scrittore, magari in occasione di qualche anniversario (da Henrik Ibsen a Samuel Beckett, da Bertolt Brecht e Heiner Müller a Hans Christian Andersen), a un regista (per esempio Pina Bausch alla Biennale del 1984, o Eimunatas Nekrosius) o a una compagnia o a un gruppo (come l’Odin Teatret o la Socìetas Raffaello Sanzio), presentando tre-quattro spettacoli con contorno di incontri e seminari.
Un’altra formula interessante è quella adottata da Intercity, la rassegna creata a Sesto Fiorentino da Barbara Nativi, che dedica monograficamente ogni edizione a una diversa capitale teatrale internazionale.
Malgrado i segnali di crisi e le difficoltà a rinnovare formule spesso estenuate, festival e rassegne sono ormai entrati stabilmente nel panorama culturale, e anzi si moltiplicano, senza necessariamente coinvolgere le ospitalità internazionali che danno solitamente lustro a iniziative di questo genere, o concentrandosi su un nome di grande richiamo. Il format finisce per compenetrarsi alle “normali” stagioni dei teatri cittadini, che contano sull’appeal della formula per dare una struttura al loro progetto (e magari per attirare ulteriore pubblico), anche se non si tratta magari di un autentico festival ma solo di un intenso weekend, o di due o tre spettacoli accomunati da un qualche elemento comune.
Nessuno sa quanti siano esattamente i festival e le rassegne made in Italy, ma siamo certamente nell’ordine delle migliaia, anche se le manifestazioni di una qualche risonanza sono molto poche. E nessuno sa quanto possa costare questa “Festivalia” (il termine è un’invenzione di Ennio Flaiano), ma certamente il suo fatturato complessivo ammonta almeno a diverse decine di milioni di euro (in grandissima parte denaro pubblico).
Le difficoltà dei capostipiti sembrano solo aver liberato la fantasia dei più piccoli (e giovani): dunque rassegne monografiche o schieramenti di tendenza, omaggi a grandi uomini, generi o capolavori del passato e del presente, contaminazioni con altre discipline, media, perversioni, religioni... Con la possibilità, sempre più ambita, di uscire dai teatri (soprattutto d’estate) e tracimare in altri spazi, metropolitani o eccentrici: sferisteri e catacombe, carceri e conventi, mense e capannoni, stalle e stazioni...
Quella dei piccoli festival è una forma leggera, flessibile, inventiva, che permette a realtà agili e innovative di aggirare i vincoli di un sistema teatrale bloccato e bolso. Offre spazi di sperimentazione e ricerca, anche nel rapporto con il pubblico e con lo spazio (oltre che migliori possibilità di contrattazione con i funzionari degli enti locali). Sono molti i gruppi e le compagnie che in questi anni producono i loro lavori grazie al sostegno di festival e rassegne. Naturalmente questa allegra sarabanda finisce per essere piuttosto dispersiva, sia sul versante delle risorse sia su quello dell’attenzione.
L’altra strada è quella della cosiddetta “eventizzazione”, ovvero la creazione di spettacoli per qualche motivo eccezionali (a cominciare dai costi), e dunque in grado di catturare l’attenzione dei media (e dunque, si presume, del pubblico opportunamente informato e incuriosito). E’ una strada che hanno seguito e seguono diversi festival, oltre che molti enti pubblici e istituzioni culturali. Ha tuttavia diverse controindicazioni. In primo luogo il “grande evento” concentra le risorse su iniziative effimere che si consumano immediatamente, senza effetti strutturali. Molto spesso l’evento viene consumato anticipatamente dai media, a prescindere dall’effettiva qualità artistica e dal rapporto che costruisce con il pubblico. Inoltre l’eventizzazione (e in parte anche la festivalizzazione) sposta l’accento dalla dimensione “feriale”, civile e politica, del teatro, e insomma dalle stagioni “normali”, che hanno impatto più profondo sul tessuto culturale. Puntare su pochi eventi “straordinari” offre grande e rapida visibilità a chi lo promuove (politici e sponsor tra tutti), ma può anche servire a nascondere le lacune della normale attività.
Oltre i festival
Questi sono alcuni degli elementi che hanno portato a sviluppare nel corso degli ultimi decenni altre modalità di circolazione internazionale degli spettacoli e dei talenti, e che vanno oltre la semplice ospitalità di prestigio e gli scambi.
Capita sempre più spesso che un teatro scritturi un regista straniero per curare uno spettacolo: al di là della presenza del nome di richiamo in cartellone (sperando magari di incrementare gli abbonamenti, come capita alle squadre di calcio che ingaggiano un campione straniero), l’obbiettivo è spesso anche quello di rivitalizzare la situazione locale attraverso il confronto con un’esperienza inedita, e con un’altra tradizione artistica e produttiva. Sono inoltre sempre più diffuse le formule di coproduzione, che consentono a un teatro di presentare una compagnia straniera all’interno della propria stagione.
Da diversi decenni l’aspetto pedagogico – o meglio autopedagogico – ha assunto un ruolo centrale: dunque si sono moltiplicate residenze con stage, corsi e seminari (ora magari ribattezzati pomposamente master o masterclass), che possono portare alla creazione di uno spettacolo-saggio: esemplari in questo senso le attività degli statunitensi Living Theatre e Bread & Puppett, che dagli anni Settanta hanno iniziato al gesto teatrale generazioni di appassionati.
Sul fronte della pedagogia, va segnalata la formula dell’Ecole des Maîtres, il corso internazionale di perfezionamento teatrale ideato e diretto da Franco Quadri, che dal 1990 permette ai giovani teatranti di diversi paesi europei di seguire un percorso formativo con i grandi maestri della scena, spesso destinato a sfociare in spettacoli-saggio.
Spettacoli da esportazione: lo show globale e la grande tradizione
In questo scenario diventa più facile individuare i filoni che possono avere un mercato internazionale – magari dopo aver consultato sulle ultime edizioni del Patalogo (l’annuario del teatro edito da Ubulibri) la sezione dedicata ai festival, assai ricca di notizie.
Va premesso che molto difficilmente all’estero gira lo spettacolo medio, quello forse più tipico della produzione nazionale ma proprio per questo meno interessante per il pubblico straniero: anche perché spesso il prodotto medio finisce ormai per essere molto simile da un paese all’altro, e per di più con adattamenti ai gusti locali che ne diminuiscono ulteriormente l’attrattiva.
Paradossalmente, riescono a circolare più facilmente, anche se magari in condizioni avventurose e precarie, alcuni spettacoli “poveri” e dunque poco costosi, che appartengono a generi in grado di superare con maggiore facilità le barriere linguistiche: esempi tipici sono la clownerie e il teatro di strada, che godono di un ampio seguito nei paesi nordici. Ma anche il teatro per ragazzi può trovare occasioni di circuitazione.
Sul versante dell’intrattenimento, e dunque dell’immediato gradimento del botteghino (visto che difficilmente può contare sul sostegno pubblico), ha grande fortuna anche quello che possiamo definire “show globale”, una forma di spettacolo in grado di essere compresa e apprezzata dalle platee del mondo intero per la sua forza comunicativa ma anche per la facilità o la semplicità dei suoi codici espressivi: i musical di Broadway e del West End londinese, con le loro mirabolanti macchine spettacolari; gli show centrati sul tango e sul flamenco; il nouveau cirque, a partire da quello straordinario fenomeno planetario (e anche economico) che è il canadese Cirque du Soleil. Possono rientrare in questo filone anche esperienze nate ai margini della scena ufficiale o addirittura nell’avanguardia, come i Momix o le virtuosistiche percussioni di Stomp, il butoh giapponese o le ultime stagioni del gruppo catalano Fura dels Baus (magari sostenuto da qualche sponsor prestigioso).
Hanno qualche affinità con questa categoria anche le grande animazioni spettacolari che accompagnano le cerimonie di apertura e chiusura di grandi eventi internazionali come le Olimpiadi e le Expo, nel loro linguaggio semplificato, nelle loro simbologie elementari, nei loro effetti speciali.
Nel caso dei kolossal teatrali, l’elemento chiave è ovviamente l’incasso al botteghino che garantisce un prodotto che ha notevoli costi di allestimento, viaggi e soggiorno, cachet: sono dunque necessari (oltre a un’accorta programmazione finanziaria e logistica) un adeguato sostegno di marketing (perché il pubblico non può limitarsi ai frequentatori abituali del teatro) e sale molto capienti (compresi teatri tenda e palazzetti dello sport).
Hanno un’ampia circuitazione internazionale anche le punte qualitativamente più alte della produzione teatrale, a cominciare dai maggiori teatri nazionali: per l’Europa la Royal Shakespeare Company e il National Theatre britannici, oltre alla Comédie Française. Per l’Italia nel dopoguerra il ruolo di teatro nazionale – almeno all’estero – l’ha svolto il Piccolo Teatro di Milano diretto da Giorgio Strehler: il suo Arlecchino servitore dei due padroni (1947), magistrale e vitalissima reinvenzione della Commedia dell’Arte, è stato a partire dal 1952 un infallibile biglietto da visita all’estero. Ma il magistero di Strehler, apprezzato dai critici di tutto il mondo, ha favorito l’esportazione di altri spettacoli del Piccolo Teatro (su testi di Brecht, Shakespeare, Goldoni, Pirandello), mentre lo stesso regista firmava importanti regie a Vienna e Parigi. Anche altri stabili hanno organizzato tournée, soprattutto il Teatro di Genova, il Teatro di Roma e lo Stabile di Torino.
Hanno un mercato internazionale anche i rappresentanti delle grandi scuole della tradizione orientale: dal No e dal Kabuki giapponese al Kathakhali e alle diverse forme del teatro e della danza indiani, dall’Opera di Pechino al teatro balinese. Spesso possono circolare anche altri generi di spettacolo considerati tipici, più o meno legati al folclore, con tour a volte finanziati direttamente dai governi dei paesi d’origine. In questi casi, la motivazione centrale è il valore culturale dello spettacolo, che però non è disgiunta dalla sua valenza politica: quello che viene fatto circolare è il patrimonio teatrale condiviso di una nazione, il suo fiore all’occhiello, o meglio l’immagine che essa vuole dare del proprio patrimonio. Anche il nostro paese negli ultimi anni ha sostenuto vetrine teatrali all’estero (soprattutto a New York e Parigi): non sono mancate accuse di sprechi e clientelismo, oltre che di casualità nelle scelte culturali.
La drammaturgia italiana all’estero
Nel dopoguerra la drammaturgia italiana è stata poco amata e valorizzata in patria dai registi e dalle avanguardie. In effetti le lamentele sulla mancanza di testi di qualità (o sul poco spazio che il nostro teatro ha riservato alla drammaturgia contemporanea) sono ricorrenti, ma è curioso notare che ben due dei Premi Nobel per la Letteratura italiani (su sei) sono soprattutto uomini di teatro: nel 1936 Luigi Pirandello, dopo l’impatto delle messinscene dei Sei personaggi di Pitöeff a Parigi nel 1923 e di Max Reinhardt a Berlino l’anno successivo; e nel 1997 Dario Fo.
Proprio Pirandello e Fo, con Eduardo De Filippo, sono nel dopoguerra tra gli autori italiani più tradotti e rappresentati nel mondo. L’autore-attore napoletano, già apprezzato per i suoi film, va spesso all’estero in tournée. E la sua Filumena Marturano trova interpreti straordinarie come Valentine Teisser, a Parigi negli anni Cinquanta; e Joan Plowright (che aveva già interpretato Sabato, domenica e lunedì nel 1973) a Londra nel 1977 e poi a Broadway, con la regia di Laurence Olivier.
I testi di Dario Fo cominciano a essere tradotti e rappresentati all’estero all’inizio degli anni Sessanta. Sono ormai centinaia le messinscene dei suoi testi i tutti i paesi del mondo, come documenta il suo sito: una notorietà che porta a una sua prima candidatura al Nobel nel 1975 (e a una collezione di lauree honoris causa). Negli anni Sessanta Dario Fo e Franca Rame iniziano anche a esibirsi in tournée all’estero (ma per ottenere il visto per gli Stati Uniti, non concesso per motivi politici, dovranno attendere il 1980).
Per il resto le messinscene di autori italiani contemporanei all’estero appaiono piuttosto casuali, e riflettono in questo le difficoltà della scrittura drammaturgica nel nostro paese (fatta salva la banale constatazione che le traduzioni sono più numerose nei paesi dove è egemone il teatro di parola, e che dunque hanno bisogno di molti testi da “consumare”).
Il fronte del nuovo
Un ulteriore filone della circuitazione internazionale – quello forse più stimolante – interessa invece le esperienze più innovative, portatrici di una poetica e di un’idea forte di teatro. Il pubblico che segue gli spettacoli internazionali (e soprattutto i frequentatori dei festival) è il più preparato e sofisticato, in grado dunque di apprezzare proprio questo genere di proposta. I nuovi linguaggi della scena incuriosiscono e offrono un’occasione di riflessione sulle necessità sociali e culturali che li ispirano.
Anche l’interesse per il nuovo a tutti i costi può presentare alcune controindicazioni. Ci sono “spettacoli da festival” che diventano oggetto di vere e proprie mode: non è raro vedere uno “spettacolo rivelazione”, magari sostenuto da una potente agenzia – spesso ormai in veste di co-produttore – che ne fa un must per i direttori di festival, girare nel corso di due o tre anni tutte le maggiori rassegne internazionali (anche in questo caso la consultazione della sezione Festival del Patalogo è assai istruttiva). Ed esistono “registi da festival”, particolarmente apprezzati dal pubblico anche per la loro capacità di provocazione: sotto certi aspetti, Rodrigo García ne potrebbe essere un esempio. Secondo il regista tedesco Peter Stein, il moltiplicarsi dei festival porta alla creazione di
spettacoli banalizzati e formattati, pensati per girare da un capo all’altro d’Europa; i festival teatrali in genere stanno diventando empori, mercati, e molti registi si specializzano in questi prodotti insipidi che piazzano poi un po’ dappertutto. Di fronte al fenomeno della globalizzazione, è indispensabile che il regista rispetti le caratteristiche di un luogo e di un pubblico.
(Peter Stein, “Le Monde”, 5 luglio 2001)
Su fronte del nuovo, il teatro italiano (insieme a quello di “piccoli paesi” come Belgio, Olanda o Slovenia, dove la scena giovanile è assai vivace) gode da tempo di una certa reputazione e ottiene successi sorprendenti. A partire dalla fine degli anni Settanta, Carlo Quartucci e Carla Tatò girano soprattutto nei paesi di lingua tedesca, mentre la Parigi del Féstival d’Automne apprezza Leo & Perla e soprattutto gli Shakespeare di Carmelo Bene, come testimoniano le pagine che il filosofo Gilles Deleuze ha dedicato al suo Riccardo III (che l’impatto sia duraturo, lo dimostra la retrospettiva dedicata a Bene dal Féstival d’Automne nel 2004).
Negli anni Ottanta, a incuriosire le platee internazionali sono il Carrozzone-Magazzini (la loro partecipazione al Theater der Welt di Colonia è testimoniata dal film di Rainer Werner Fassbinder Theater in Trance, 1981, mentre il loro Artaud debutta a Kassel nel 1987 nell’ambito di Dokumenta); e la Gaia Scienza (una tournée berlinese del gruppo ispirerà a Franco Cordelli il romanzo Pinkerton, 1986): da allora Giorgio Barberio Corsetti ha lavorato spesso all’estero, soprattutto in Portogallo (al Teatro Nacional S. Joao di Oporto) e in Francia (al Théâtre National de Strasbourg).
In tempi più recenti, tra i gruppi italiani più apprezzati all’estero, la compagnia di Pippo Delbono (che porta nel 2002 al Féstival d’Avignon una personale con Il silenzio, La guerra e Rabbia, e si esibisce oltre che in vari paesi europei anche in America del Sud e del Nord, Australia, Giappone); e la Socìetas Raffaello Sanzio: i suoi lavori sono presenti nei programmi di molti festival internazionali; in particolare il gruppo cesenate è protagonista al Festival d’Automne di Parigi nel 2000 e nel 2001 (dove la compagnia Scipione-Sframeli presenta in dittico Bar e La festa) e al Féstival d’Avignon nel 2002 e nel 2004, e l’anno successivo è al Féstival des Amériques di Montréal con Genesi. La Tragedia Endogonidia, il progetto più ambizioso e complesso della Socìetas Raffaello Sanzio, tocca nove città europee: oltre alle già citate Avignone e Parigi, Berlino, Bruxelles, Bergen, Roma, Strasburgo, Londra e Marsiglia, per concludersi a Cesena nell’ottobre 2004. Un metodo analogo – che prevede una sorta di feedback creativo tra committenza e artista – l’ha seguito in questi anni Pina Bausch, con spettacoli commissionati e ispirati da varie città, come Palermo (Palermo, Palermo, 1989), Roma (Dido), 1999), San Paolo (Aqua, 2001). Su scala più ridotta, il progetto West di Kinkaleri tocca nel 2004 diverse capitali, tra cui Parigi, Roma e Amsterdam.
Anche altri gruppi giovani trovano ottima accoglienza all’estero: Fanny & Alexander, Teatrino Clandestino e Motus, che dopo diverse fortunate apparizioni internazionali, hanno l’opportunità di realizzare un loro importante spettacolo in Francia. L’ospite, liberamente ispirato a Teorema di Pier Paolo Pasolini, debutta nell’aprile 2004 a Rennes, dopo una lunga residenza per la parte conclusiva delle prove nella città francese, con Théâtre National de Bretagne come co-produttore.
Si stanno dunque aprendo spazi per forme di collaborazione innovative, dove ha grande ruolo anche la creatività degli organizzatori.
Le nuove internazionali del teatro
In generale, mentre si moltiplicano gli scambi e le occasioni di viaggio, sta probabilmente cambiando l’atteggiamento dei teatranti e del teatro di fronte al problema delle frontiere, delle lingue e delle culture: sono sempre più numerosi le compagnie o i progetti che raccolgono al loro interno artisti di diverse nazionalità. Progetti di questo genere sono facilitati dalla presenza di attori bilingui. Il fenomeno non è certo nuovo: basti pensare alla gloriosa parabola di Alexander Moissi (1879-1935), attore italo-albanese in grado di recitare in tedesco, italiano, francese, inglese, greco e spagnolo.
Parallelamente si moltiplicano le reti internazionali tra teatri. Tra queste ultime, la più nota è l’Unione dei Teatri d’Europa, che nasce nel 1990 da un’intuizione di Jack Lang e di Giorgio Strehler, uno dei rari uomini di teatro italiani con un’autentica proiezione internazionale, all’epoca direttore del parigino Théâtre de l’Odéon-Théâtre de l’Europe. Di fronte a una integrazione europea condotta quasi unicamente sulla base di criteri finanziari ed economici, il regista avverte la necessità di dare maggiore spessore culturale a questo processo, proprio partendo da una forma artistica tipicamente europea come il teatro.
È mia convinzione che fino a che una possibile unità europea non metterà l’evento culturale, il suo patrimonio di cultura e d’arte al primo posto della sua costruzione, essa sarà destinata al fallimento, anche se strutturalmente riuscisse in qualche modo a costituirsi.
La prima realtà in atto, concreta, che non ha bisogno di “soluzioni politiche” ma solo “pratiche” ed organizzative, è l’unitarietà della cultura europea. (...) In questo mondo della cultura e della creazione d’arte ha il teatro una ragione e una possibilità di esistere? Io penso che ha il dovere di esistere ed operare concretamente per una idea più alta dell’Europa, assai più alta di quella da noi oggi vissuta. (...)
Certo un “teatro europeo” esiste. Ogni Nazione del nostro continente possiede un suo sistema teatrale ed ogni sera i sipari si aprono si chiudono in innumerevoli città europee. L’organizzazione della teatralità in Europa ha molti caratteri comuni. Le preoccupazioni degli artefici dei differenti paesi sono molto simili e tutto questo mondo teatrale si articola sugli elementi eternamente costitutivi del Teatro. Ovunque attrici ed attori “recitano” testi di autori drammatici, ovunque spettatori assistono agli spettacoli che sono loro offerti, ovunque registi, scenografi, costumisti, musicisti e tecnici della scena compiono il medesimo mestiere.
E qui non parlo dei diversi livelli artistici su cui i vari avvenimenti teatrali si verificano. Né dei problemi stilistici che sono presenti nei singoli spettacoli. Direi che dal punto di vista del “fare teatro” l’Europa mostra una evidente unitarietà. Persino nella determinazione dei propri repertori. Esiste un ampio scambio di testi rappresentati nei teatri dell’Europa e a parte le esperienze più nazionali, appaiono evidenti anno per anno correnti di scelte comuni. Gli stessi autori, con gli stessi testi, vengono rappresentati in tutti i teatri europei in edizioni evidentemente diverse. E ciò vale anche per la riproposta di alcuni classici che compaiono sulle scene europee con maggiore frequenza. (...)
C’è una tradizione europea di scambi teatrali certamente straordinari che percorre tutte le nazioni europee tra il 1900 ed oggi e gli incontri dei pubblici stranieri con attori stranieri sono avvenuti con una certa continuità anche se si è trattato di “avvenimenti eccezionali”. (...)
È dal 1982 che si inizia una vera politica europea per il Teatro anche se realizzata in mezzo a mille assenze, indifferenze e difficoltà. Ciò che caratterizza questa nuova fase è innanzitutto la continuità non l’esibizione effimera di una o due sere in un certo teatro europeo da parte di un teatro europeo. Il numero di recite diventa consistente, fa parte di un piano di sviluppo, di una politica per un teatro europeo. L’eliminazione della traduzione simultanea è una delle conquiste di questa politica, né il permanere qua e là della stessa in certe occasioni, o quella ancora peggiore dei sottotitoli scritti per essere proiettati come talvolta ancora avviene, muta una situazione che sta evolvendosi continuamente. In sostanza si è arrivati a capire che l’avvenimento teatrale, quando è valido, poetico, soprattutto quando è chiaro, ben recitato, oltrepassa quella soglia linguistica pur fondamentale nel teatro. I folgoranti successi pubblici di decine e decine di spettacoli contemporanei in nazioni straniere, la loro permanenza nei programmi dei teatri nazionali, sembrano ormai essere una cosa normale e finiscono per essere parte di un nuovo costume. Un costume europeo appunto.
(Giorgio Strehler, Il teatro nella prospettiva di un’Europa Unita, novembre 1993)
L’Unione dei Teatri d’Europa (che nel frattempo si è allargata, accettando nuovi soci) favorisce la circolazione degli spettacoli, organizza ogni anno in una città diversa l’importante Festival dei Teatri d’Europa e sostiene il Premio Europa per il Teatro. Un’iniziativa del genere sposta l’accento sulla cooperazione e sulla creazione di reti tra teatri, anche se non va sottovalutato il rischio di “chiudere” la rete, fino a creare una sorta di club.
Si avvertono anche cambiamenti più profondi, che vanno alla radice stessa dell’esperienza teatrale – e addirittura della comunicazione umana.
Pionieristica è l’esperienza di Peter Brook e del suo Centre International de Recherches Théâtrales, fondato a Parigi nel 1970, con una compagnia di attori di tutto il mondo selezionati tra 150 candidati. Nel 1972 il regista e la sua compagnia partono per un lungo viaggio in Africa, recitando (e quasi sempre improvvisando) su un tappeto nelle piazze, nelle moschee, nei mercati, agli angoli delle strade.
I componenti del Centre vengono dal Giappone, dall’Africa, dalla Germania, dalla Francia, dall’America. Per un gruppo internazionale non può porsi il problema della parola. Quando delle persone che giungono da diverse parti del mondo si riuniscono, bisogna trovare un modo di relazione. Non si può lavorare veramente nel campo verbale senza dare la preferenza a una lingua piuttosto che a un’altra, e se si usa in prevalenza una certa lingua, si nota che certe persone non possono aprirsi con una lingua straniera. La forma del teatro fondata su una lingua è stata quindi totalmente eliminata (...) Cerchiamo ciò che anima una cultura. Piuttosto che prendere la forma culturale in sé, cerchiamo di scoprire ciò che la anima. E’ necessario che l’attore cerchi di uscire dalla sua cultura e, più in là, dai suoi stereotipi. Ogni istante della vita affibbia all’africano più intelligente e più docile una immagine di africano e al giapponese quella di giapponese; il fenomeno si riproduce anche all’interno di un gruppo in cui a ogni istante l’ammirazione dei compagni può per esempio rafforzare uno dei membri in una serie di ruoli. Il nostro primo impegno è dunque cercare di uscirne, non certo in nome della ricerca della neutralità, ma con una finalità assolutamente opposta. Spogliandosi dei tic etnici, il giapponese diventa più giapponese e l’africano più africano, e si raggiunge uno stadio in cui le forme sono più fissate: appare una situazione nuova, che permette a persone di origine differente un nuovo atto di creazione; possono creare insieme, e ciò che creano assume una colorazione diversa. (...) Nel microcosmo del nostro piccolo gruppo esiste una possibilità di contatto a un livello molto più profondo. (...) Si può arrivarci solo se coesistono alcune condizioni: una certa concentrazione, una certa sincerità, una certa creatività.
(da Lungo viaggio verso la percezione. Intervista con Peter Brook di Denis Bablet, in Peter Brook o il teatro necessario, a cura di Franco Quadri, Edizioni de La Biennale, Venezia, 1976)
Il risultato finora più alto di Brook e del suo CIRT è il Mahabharata (1987), kolossal teatrale della durata di nove ore (con la drammaturgia di Jean-Claude Carrière), in cui il grande poema epico indiano viene restituito alla vita da una troupe multinazionale di attori straordinari: il giapponese Yoshi Oida, il maliano Sotigui Kouyaté, l’inglese Bruce Myers, il francese Pierre Bénichou, il senegalese Mamadou Dioume, l’italiano Vittorio Mezzogiorno, il polacco Ryszrad Cieslak...
Un’altra esperienza chiave è quella dell’Odin Teatet di Eugenio Barba. Nel 1964 un giovane regista italiano emigrato in Scandinavia, reduce da un soggiorno a Opole, in Polonia, dove ha visto all’opera Jerzy Grotowski e il suo Teatr Laboratorium, e da un viaggio in India, fonda un gruppo teatrale con giovani aspiranti attori che arrivano da paesi (e da retroterra linguistici) diversi: norvegesi, danesi, svedesi... Due anni dopo l’Odin Teatret si trasferisce nella cittadina danese di Holstebro, che aveva offerto al gruppo una sede e un minimo sostegno economico. Entreranno via via a far parte del gruppo attori di altri paesi e continenti. Negli stessi anni, l’Odin si confronta con le diverse tradizioni teatrali dell’Oriente e dell’Occidente: a Holstebro arrivano Jerzy Grotowski, Etienne Decroux, Jacques Lecoq, Dario Fo, Jean-Louis Barrault, Joseph Chaikin, Judith Malina e Julian Beck, ma anche artisti giavanesi e balinesi (Sarno, I Made Pasek Tempo, I Made Djiamat), del teatro giapponese No, Kyogen, Kabuki e Singeki (Hisao e Hideo Kanze, Masnnojo Nomura, Sawamura Sojuro, Shuji Terayama) e le più importani forme classiche del teatrodanza dell’India: Kathak, Bharatanatyam, Odissi, Chhau e Kathakali. Da questo confronto, che è insieme pratico e teorico, nasce nel 1979 l’ISTA (International School for Theatre Anthropology), attraverso il quale Barba mette a punto i principi dell’antropologia teatrale, ovvero la ricerca degli elementi che differenziano l’atteggiamento quotidiano dalla presenza scenica.
L’antropologia teatrale studia il comportamento fisiologico e socio-culturale dell’uomo in una situazione di rappresentazione. Diversi attori, in luoghi e epoche diverse, fra i molti principi propri di ciascuna tradizione, in ciascun paese, si sono serviti anche di alcuni principi simili. Rintracciare questi “principi-che-ritornano” è il primo compito dell’antropologia teatrale. I “principi-che-ritornano” non sono prove dell’esistenza di una “scienza del teatro” o di alcune leggi universali; sono consigli particolarmente buoni, indicazioni che hanno una forte probabilità di risultare utili alla prassi teatrale. (...)
L’attore contemporaneo occidentale non ha un repertorio organico di consigli su cui appoggiarsi e orientarsi. Ha come punti di partenza, in genere, un testo o le indicazioni di un regista. Ma gli mancano quelle regole di azione che, pur non restringendo la sua libertà artistica, lo aiutino nel suo compito.
L’attore tradizionale d’Oriente, al contrario, si basa su un corpo organico e ben sperimentato di “consigli assoluti”, cioè delle regole d’arte che assomigliano alle leggi di un codice: codificano uno stile d’azione chiuso in se stesso e a cui tutti gli attori di quel genere debbono adeguarsi. (...)
Un teatro può aprirsi alle esperienze di altri teatri non per intrecciare maniere diverse di far spettacoli, ma per rintracciare principi simili in base ai quali trasmettere le proprie esperienze. In questo caso l’apertura al diverso non significherebbe necessariamente una caduta nel sincretismo e nella confusione delle lingue. Da una parte si eviterebbe il rischio dell’isolamento sterile, dall’altra quello di un’apertura a tutti i costi, che degenererebbe nella promiscuità.
(Eugenio Barba, Aldilà delle isole galleggianti, pp. 146-147)
A mettere in pratica questi principi, sotto la guida dello stesso Barba, è la compagnia Theatrum Mundi, che raccoglie attori provenienti dalle tradizioni asiatiche, africane ed euro-americane, gli attori dell’Odin e artisti della località dove si tiene la sessione dell’ISTA.
Nella scia di Brook e Barba, su una prospettiva multiculturale si muovono altre esperienze, secondo un’ampia gamma di possibilità, nell’ambito del continuo scambio tra Oriente e Occidente che ha caratterizzato la storia del teatro novecentesco.
L’operazione più semplice consiste ovviamente nell’allestire un testo della tradizione occidentale secondo uno stile “orientale”. Lo ha fatto per esempio Ariane Mnouchkine, quando ha immerso i testi di Shakespeare in atmosfere e suggestioni che rimandavano alle tradizioni orientali: nel Riccardo II (1984) e nella Notte dei re (Avignone, 1984) la messinscena riprendeva gli stilemi del teatro giapponese e indiano. Per certi versi affine è l’operazione condotta con Samritechak, “l’Otello khmer” chiamato da Peter Sellars alla Biennale Teatro 2005: in questo caso una compagnia orientale, l’Ensemble di Danza e Musica della Royal University of Fine Arts di Phnom Penh, ha portato in scena uno dei testi più noti della tradizione occidentale. In operazioni di questo genere, l’intreccio riguarda tre elementi: un testo (che fa parte della tradizione occidentale, o meglio del “canone” occidentale, visto che portano la firma autorevole di Shakespeare), una compagnia di attori addestrati all’interno di una tradizione (nel primo caso occidentale, nell’altro orientale) e uno “stile teatrale” più o meno ibrido (nel primo caso attori occidentali che usano tecniche espressive orientali, con tutte le inevitabili; nell’altro attori orientali che seguono la tradizione in cui si sono formati). Questa drastica semplificazione (esistono diverse tradizioni orientali, così come la tradizione occidentale è assai variegata, e da più di un secolo continuamente arricchita da contaminazioni e innesti) può essere utile per capire la ricchezza delle possibilità offerte dalla pratica di un teatro multiculturale.
Peter Brook ha raccolto al CIRT attori con origine e formazione molto diverse, senza certamente costringerli ad abbandonare il loro imprinting, anzi, ma cercando un punto d’incontro semplicemente umano, all’interno di una cornice teatrale essenziale e quasi originaria, adatta a rappresentare testi presi da tradizioni assai diverse, da Shakespeare a Farid Attar, dal Mahabharata ad Athol Fugard. Affine era, per certi versi, l’impostazione di Jerzy Grotowski, che nel Teatro delle Fonti cercava di riattivare una dimensione originaria dell’esperienza umana di cui restano tracce in varie tecniche e tradizioni, dallo yoga indiano al voodoo haitiano, ma cercando elementi utili anche nella ginnastica occidentale, che fu alla base di alcuni esercizi del training del Teatr Laboratorium, e nelle sperimentazioni teatrali di Stanislavskij con gli attori.
In altri casi, si può cercare invece un punto di contatto specifico tra due universi culturali lontani: un esempio è la ricerca delle Albe sulle affinità tra i griot senegalesi e i fûler romagnoli, due figure di attore-autore-narratore presenti nelle due tradizioni, che è diventato il tema di uno spettacolo, Ruh. Romagna + Africa =. Su questi fondamenti Marco Martinelli, il regista del gruppo ravennate (che ha inglobato diversi immigrati, formando una compagnia multietnica), nell’allestire il testo goldoniano I 22 infortuni di Mor Arlecchino (1993) ha scelto di affidare la parte di Arlecchino a un attore africano.
Il Theatrum Mundi – un’etichetta barocca, che però tradotta in inglese rimanda anche a World Music, genere ugualmente contaminato e ibrido – diretto da Eugenio Barba si muove in una prospettiva diversa. Nell’Ur-Hamlet (2006) il regista non chiede ai suoi attori di rinunciare al peso della loro tradizione, o di alleggerirlo. Anzi, li prende così come sono: con i loro costumi colorati, la gestualità stilizzata e formalizzata, la vocalità addestrata per decenni, addirittura con le maschere... La scommessa – l’utopia – è che questi diversi colori e tonalità possano convivere e interagire sulla scena, arricchendosi a vicenda. Il regista ha il compito di montare (con adattamenti minimi) i diversi spezzoni all’interno del suo progetto, facendo interagire attori con storie e formazioni assai lontane tra loro (un postulato implicito, anche se non strettamente indispensabile, è quello su cui è fondata l’antropologia teatrale di Barba: cioè il fatto che nelle diverse tradizioni l’attore si faccia carico di un surplus di energia).
Queste forme di spettacolo “multitradizionale” si stanno già affermando, anche se magari non sono sorrette dalla consapevolezza anticipatrice di un Brook o di un Barba: basta guardare il programma della Notte Bianca romana 2007 per capire che già sono un ingrediente indispensabile per una manifestazione popolare – o addirittura di massa – in una metrpoli multietnica. Ma in questi incontri, quale potrà e dovrà essere il ruolo affidato alle singole culture? Gli stili recitativi verranno utilizzati da un regista-arrangiatore solo come i colori sulla tavolozza di un pittore, in base alla loro efficacia e funzionalità? Oppure ciascuna di quelle diverse tradizioni porta in sé qualche valore specifico, che può arricchire lo spettacolo di significati? In questa composizione, che ruolo può avere l’Occidente, nelle sue varie articolazioni, a cominciare dall’istituzione stessa della regia come principio regolatore e garante del senso complessivo dello spettacolo?
Così il cerchio si chiude e nello stesso momento si riapre. Un’esperienza locale ed élitaria come il teatro affronta alcune delle problematiche più complesse del villaggio globale, quelle dell’incontro tra le diverse culture, partendo dalla loro intima essenza. E’ un compito difficile e ambizioso, e che tuttavia risponde alla natura profonda del teatro, alla sua funzione più alta.
NOTA
Una bibliografia sui temi affrontati da questo capitolo, così radicati nella vita materiale del teatro e insieme nella sua natura più profonda e inafferrabile, potrebbe ridursi a ben poca cosa: si tratta di un campo di studi esplorato solo episodicamente, e non nella sua organicità e problematicità; oppure rischierebbe di diventare fin troppo ampia e di scarsa utilità, se avesse l’ambizione di coprire le esperienze di cui danno ampio conto le memorie e le testimonianze di attori, capocomici, studiosi e teorici del teatro.
Ci limiteremo quindi a suggerire alcune letture, che possono aiutare a mettere a fuoco temi e problemi ci abbiamo solo accennato.
Abbiamo già consigliato la consultazione del Patalogo, l’annuario del teatro curato da Franco Quadri e pubblicato dalla Ubulibri a partire dal 1979: la panoramica dedicata ogni anno ai festival in Italia e nel mondo offre moltissime informazioni sugli spettacoli che hanno girato sulle scene internazionali negli ultimi trent’anni (si privilegia il teatro, ma non mancano accenni al teatrodanza e alla danza). Ai maestri della scena mondiale sono dedicati, nei vari numeri del Patalogo, diversi saggi, che da un lato finiscono per comporre vere e proprie monografie sui singoli artisti o compagnie, e dall’altro permettono di individuare tendenze e linee di ricerca. In rete, util informazioni si posono trovare su www.ateatro.it.
Alcuni testi sulla scrittura scenica sono ora raccolti in Giuseppe Bartolucci, Scritti critici 1964-1987, Bulzoni, Roma, 2007.
Dario Fo ha raccontato del grammelot nel Manuale minimo dell'attore, Torino, Einaudi, 1987, e nel Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione con Luigi Allegri, Laterza, Roma-Bari, 1990; molte tracce se ne trovano nel suo Teatro, pubblicato da Einaudi.
Per comprendere il successo delle compagnie italiane all’estero a partire dal Cinquecento, resta utilissimo di Ferdinando Taviani e Mirella Schino Il segreto della commedia dell’arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII e XVIII secolo, La casa Usher, Firenze, 1982. Nella nota di Ferdinando Taviani alla quarta edizione del 2007 (che aggiorna anche la bibliografia), si legge:
Gli spettacoli prodotti per esser venduti hanno forti elementi comuni nei diversi paesi d’Europa, che non vengono sufficientemente valutati quando li si vede come particolarità di aree culturali, linguistiche, nazionali invece che come particolarità di categoria. Per esempio: il polilinguismo (lo spettacolo della lingua attraverso l’esposizione delle diversità); la pratica dell’improvvisazione; la presenza quasi senza eccezioni del comico accanto alle vicende serie, sentimentali o tragiche; e soprattutto un modo di costruire l’azione drammatica attraverso l’intreccio di più linee o più trame, che da un lato si intersecano, e dall’altro stanno fra loro in una delle relazioni previste in musica dalla pratica del contrappunto (speculari su diversi registri, a contrasto, in relazione retrograda). E’ un modo completamente diverso di pensare la drammaturgia rispetto al modo che si praticava nelle accademie e nelle corti, diverso anche dal modo in cui si visualizzavano le storie negli spettacoli religiosi o festivi. (p. 495)
Sulle strategie dei comici italiani a Parigi, vedi anche Siro Ferrone, Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, Laterza, Roma-Bari, 2006; e Delia Gambelli, Arlecchino a Parigi. Dall’Inferno alla corte del Re Sole, 2 voll., Bulzoni, Roma, 1993.
Sui viaggi di Don Giovanni, vedi Giovanni Macchia, Vita avvenutra e morte di Don Giovanni, Adelphi, Milano, 1991 (prima ed. Laterza, Roma-Bari, 1966), integrato da Silvia Carandini e Luciano Mariti, Don Giovanni o l’estrema avventura del teatro, Bulzoni, Roma, 2003.
Per quanto riguarda Giorgio Strehler e il Théâtre de l’Europe, si possono consultare il sito www.strehler.org, su cui è pubblicato il testo che abbiamo citato (datato 30 novembre 1993); e poi Giorgio Strehler o la passione teatrale. L’opera di un maestro raccontata da lui stesso al III Premio Europa per il Teatro a Taormina Arte, a cura di Renzo Tian con Alessandro Martinez, Ubulibri, Milano, 1998; e la collezione della rivista “TE théâtre en europe”, diretta dallo stesso Strehler e pubblicata negli anni Ottanta e Novanta prima in Francia e poi in Italia.
Un tentativo di affrontare i problemi del teatro su scala continentale è testimoniato dai cinque Forum du théatre européen, tenuti a Saint-Étienne tra il 1996 e il 2001; gli atti sono raccolti in cinque volumi pubblicati da Actes Sud (in francese).
Sui rapporti tra Oriente e Occidente, ricchissimo di documenti e materiali, ma anche di notizie ed esperienze curiose, è il monumentale saggio di Nicola Savarese, Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente, Laterza, Roma-Bari, 1992 (e vedi anche il suo Il teatro Eurasiano, Laterza, Roma-Bari 2002).
Sull’antropologia teatrale e sul lavoro dell’ISTA, oltre ai numerosi saggi di Eugenio Barba, resta illuminante quella che è quasi una enciclopedia (o una contro-enciclopedia) del teatro mondiale: L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale di Eugenio Barba e Nicola Savarese, Ubulibri, Milano, 2005 (che sviluppa i precedenti L’arte segreta dell’attore. Dizionario di antropologia teatrale, Argo, Lecce, 1996; e Anatomia del teatro. Un dizionario di antropologia teatrale, La casa Usher, Firenze, 1983).
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“Teatro fuori di sé” è un progetto che Massimo Paganelli, direttore artistico di Armunia Festival, ha ideato per definire le varie iniziative promosse da Armunia all’interno della stagione 2007-08, nell’anelito di un teatro centrifugo che varchi i confini tradizionali. Tra queste gli otto microfestival di InequilibrioEsploso e i Dialoghi.
I Dialoghi, esperimento in collaborazione con la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa, coinvolgono cittadini delle province di Livorno, Pisa e Grosseto. Sono, in sostanza, un’occasione di incontro e riflessione, che stimoli un’analisi libera e aperta della realtà contemporanea. I gruppi dei vari Dialoghi (massimo 10 partecipanti) si incontrano a intervalli regolari di una o due settimane e, alla presenza di tutor-coordinatore, discutono e si confrontano su alcune delle “parole chiave” proposte dal tavolo dei tutor. I Dialoghi sono, con le parole di Massimo Paganelli, un tentativo di “parlare di teatro, senza parlare di teatro”, persone che hanno la voglia e l’esigenza di condividere momenti di confronto, per riflettere e soffermarsi su parole che spesso vengono date per scontate nella velocità del quotidiano.
Le parole chiave, all’incirca una trentina, sono state scelte nell’ottica di creare collettori generici di problematiche del contemporaneo da approfondire. Tra le altre, si discute attorno ad Abuso, Censura, Comico/Tragico, Desiderio, Etica/Morale, Futuro, Laicità, Lentezza, Mutamento, Scritto/Orale, Pudore, Sacro/Profano, Seduzione, Solitudine, Vaghezza, Violenza/Crudeltà.
Al fine di dare un respiro più ampio all’iniziativa sono stati coinvolti altri quattro enti delle province di Livorno e Grosseto: il “Centro Artistico Il grattacielo” di Livorno, la Scuola comunale di teatro “Artimbanco” di Cecina (LI), il “Nuovo Teatro dell’Aglio” di Campiglia Marittima (LI) e il “Laboratorio Gavorranoidea” di Gavorrano (GR).
I cittadini che partecipano ai Dialoghi incontrano gli artisti che partecipano a InequilibrioEsploso. L’incrocio diventa opportunità di scambio e di confronto, in una commistione di idee e istanze, di cui ciascuno, artisti e cittadini, è portatore.
Il progetto si inserisce in una linea di lavoro che Armunia segue dalla sua nascita: procedere in direzione di un intreccio dei linguaggi dell’arte, delle nuove frontiere drammaturgiche, incastonando, all’interno della tradizionale stagione teatrale, nuove iniziative, che rispondono al dettato del patto Rutelli tra Stato e regioni.
Lo staff organizzativo, i professori dell’Università di Pisa e i tutor lavorano assieme e confrontano il materiale emerso dai vari incontri dei Dialoghi e di InequilibrioEsploso.
Preme sottolineare l’integrazione tra Esploso e i Dialoghi come momento precipuo del “Teatro fuori di sé”, “un progetto che si configura anche come nuova frontiera di organizzazione e gestione del fatto teatrale che dovrà, nel triennio 2007/09, espandersi in un rapporto sempre più integrato tra gli artisti, le compagnie, la comunità che ospita, inducendo la ricerca di risposte al bisogno di creare connessioni e analogie tra il farsi del teatro e la dimensione del “teatro fuori di sé”, formula che definisce un fenomeno (il teatro) estetico che scavalca se stesso sotto una spinta di tipo etico-cognitivo”, precisa Massimo Paganelli.
Il progetto InequilibrioEsploso nasce come prosecuzione del festival estivo Inequilibrio.07, con l’intento di ripetere il clima che si respira a Inequilibrio nei mesi del festival estivo.
Sono molte le compagnie, già presenti nel mese di luglio 2007 invitate da Armunia, nella stagione in corso, a trascorrere residenze della durata di due settimane. Queste sfociano in microfestival, all’interno dei quali le compagnie portano in scena uno studio (frutto della residenza) o uno spettacolo del loro repertorio, il tutto senza superare la durata di sessanta minuti. Piccole tappe di un percorso artistico e lavorativo che avrà il suo compimento nel mese di luglio 2008, nella prossima edizione di Inequilibrio. Armunia garantisce alle compagnie invitate una residenza nel luogo della rappresentazione, con servizi, assistenza tecnica e anche un’occasione di visibilità, consegnando, nei fatti, ai soggetti teatrali che si occupano di produzione e distribuzione, “vetrine” del nuovo.
I primi due microfestival di Esploso sono stati IN festival (1-2 dicembre 2007), con cinque compagnie in residenza: Edgarluve, Mo-wan Teatro, Alessandro Lombardo diretto da Francesco Suriano, Gaetano Ventriglia, Teatropersona ed E festival (15 dicembre 2007) che ha ospitato Fortebraccio Teatro, EmmeATeatro e Patrizia Aroldi sotto la regia di Johnny Gable.
All’ultima edizione di InequilibrioEsploso, Q festival, il 12 gennaio 2008, hanno partecipato la compagnia umbra Zoe Teatro e quella romana Malebolge. Gli umbri Michele Bandini e Emiliano Pergolari hanno presentato lo studio Esercizio: Frammenti vaghi di una corte confusa, liberamente ispirato all’Architruc di Robert Pinget (1919-1997).
“La situazione è chiara. Il Re, il suo ministro Baga, il cuoco di corte. Tre entità, tre ombre, si rischierebbe di esagerare nel definirle figure”, suggerisce Michele Bandini. E da qui si parte.
In scena tre personaggi, un re, un ministro e un cuoco di corte, in una scenografia densa di oggetti e macchinerie artigianali, in una mezz’ora intensa e surreale che narra la vita di una corte buffa e scalcinata, colorata crisalide di un progetto ancora in fase di definizione.
“Questa storia come continua? Il Re annoiato diventerà feroce, sprocerato o come? Il ministro trasformista sarà coerente? E il cuoco di corte? Diventerà carne o resterà sulla carta? Moriranno ancor prima di nascere o moriranno in scena? Intanto si va. Non si sa dove ma si va!” commenta Emiliano Pergolari. Da sottolineare l’approccio al progetto di Armunia di Zoe Teatro che vede Esploso come una vera e propria “Babele di ispirazioni”, luogo dove succede veramente qualcosa di particolare, dove si percepisce forte l’idea, il senso che sta alla base dell’agire di coloro che lo tengono vivo: un luogo che è fucina di artisti ma ancora più fucina di un pubblico, luogo d’incontro, di confronto tra visioni e poetiche differenti.
E’ stata poi la volta della Compagnia Malebolge, che ha portato in scena Magick, tutti sotto controllo, microstudio di dieci minuti, frammenti di un lavoro che andrà a analizzare il mondo della magia e dell’amore, seguito dalla versione ridotta di Tumore, uno spettacolo desolato, spettacolo dedicato a Virginie Larre, storica dell’arte scomparsa prematuramente.
La compagnia Malebolge è stata fondata nel 2003 da Lucia Calamaro, regista e drammaturga, che si avvale della collaborazione di Benedetta Cesqui e Monika Mariotti.
Dice Lucia Calamaro a proposito di Tumore: “Questo è uno spettacolo di cui ancora ignoro la natura. Soprattutto ora, che uscito definitivamente da me, ha vita propria. So solo che volevo uno spettacolo profondamente tragico che mi si trasforma tra le mani in qualcosa che lo è sempre meno. E allora comincio a dirmi che c’è un’ironia che è risultato di desolazione, negazione, privazione, perché cerco di raccontare l’itinerario indicibile di un malato terminale”.
Lo spettacolo è ambientato nel nudo rettangolo di un nosocomio dove vanno a morire i malati terminali. In questa culla di nature ibride, la malata, sua madre e una dottoressa si affidano a elisir, miracoli d’arte varia, preghiere e infine a un’ultima operazione impossibile, scettico appiglio risolutivo che la medicina tende allo spirito.
La regista e autrice Lucia Calamaro ha così commentato la sua presenza a InequilibrioEsploso. “Il mio fare teatro ultimamente ha messo su delle arie come da esploratore ottocentesco e il suo obiettivo è, per cosi dire, geografico-conoscitivo: si tratta dunque di allargare il territorio conosciuto. Non quello del teatro, ma il mio, il nostro, di noi Malebolge e, a Dio piacendo, anche quello di chi quel giorno, per caso, capita a vederci.
Fatto sta che mi sento stretta, ovunque lo spazio, le cose e la loro natura, risultino troppo definite e ordinate. Ibridi, ambiguità e indecisioni sono il mio pane quotidiano; credo infatti che dalla confusione, più che dalle certezze, arrivino le sorprese.
Adoro vivacchiare nei posti di rango bizzarro, cincischiarci e stordirmici. E poi cerco di orientarci anche il mio teatro. È del resto da lì, da quei posti mentali, stretti e nascosti, che vengono fuori le mie parole. Quei luoghi sono la mia enciclopedia. Ed è lì che poi cerco di portare i miei attori.
Mi piace pensare che il luogo, lo spazio dove si svolge, nasce e finisce il teatro di Malebolge è nei minuscoli vuoti esistenti, sebbene invisibili all’occhio nudo, tra i bordi naturali che uniscono idealmente le mappe del teatro e del reale. Zone di sprofondo, non certo di superficie.
Zone astratte, elitarie, autocompiacenti, inutili. Ma, suppongo, generatrici di un mondo parallelo e, come tale, ricco di immagini e situazioni pressoché infinite. E poi è solo da lì che, talvolta, ho la sensazione di riuscire appena a “far vedere l’ombra delle cose” di cui parlava tanto Artaud”.
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